«Il paesaggio e il tessuto monumentale italiani non sono qualcosa di cui possiamo sbarazzarci impunemente. Sono la forma stessa della nostra convivenza civile, della nostra identità individuale e collettiva, del nostro progetto sul futuro. Così L'Aquila non è solo la metafora dell'Italia ma rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un paese che affianca all'inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l'alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentalei».
A scriverlo è Tomaso Montanari nel suo ultimo libro, edito da minimum fax, "Le pietre e il popolo", un saggio molto documentato che passa in rassegna alcuni casi emblematici della (disastrosa) situazione in cui versa il patrimonio storico e artistico dell'Italia; ma anche un durissimo pamphlet contro la retorica del Bello con cui si copre lo sfruttamento delle città d'arte e la loro mercificazione a danno dell'interesse collettivo.
Qualche riga più su Montanari, storico dell'arte e professore all'università Federico II di Napoli, scrive: «All'Aquila dovrebbero andare anche gli storici dell'arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari ci renderemmo conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto».
Detto fatto.Montanari ha chiamato a raccolta, all'Aquila, migliaia di storici dell'arte provenienti da tutta Italia, tra cui Salvatore Settis, che si riunirannooggi in città per parlare non solo di ricostruzione ma di ricostruzione civile. Espressione che significa anzitutto condurre una battaglia politica affinché lo Stato torni ad essere il custode dell'interesse pubblico anche per ciò che concerne l'arte, la cultura e il paesaggio, come prevede del resto la nostra Costituzione.
Perché convocare più di mille tra esperti, professori e docenti universitari di storia dell'arte all'Aquila?
Ero venuto all'Aquila poco più di un anno fa, nel marzo 2012, ricavandone un'impressione tremenda. Non solo avevo trovato una città distrutta ma anche una città completamente ferma, morta, silenziosa, in cui non si stava facendo nulla per ricostruire e non era stato elaborato alcun progetto di rinascita.L'idea di portare all'Aquila gli storici dell'arte nasce proprio in quei giorni. Volevo che anche altri miei colleghi vedessero con i loro occhi quello che avevo visto io. Noi storici dell'arte, per mestiere, usiamo i nostri occhi: il nostro giudizio intellettuale e storico si basa sul giudizio dell'occhio. A mio parere uno dei problemi dell'Aquila è che ancora non è sufficientemente entrata nella coscienza collettiva del mondo intellettuale italiano. Portare quanti più storici dell'arte italiani all'Aquila, dunque, vuol dire diffondere nel Paese un giudizio diretto su quello che è lo stato della città.La distruzione della seconda guerra mondiale fu fondamentale per lo sviluppo della coscienza critica degli storici dell'arte di un'intera generazione. Lo stesso avvenne in occasione dell'alluvione di Firenze. Per la mia generazione, il terremoto dell'Aquila deve essere uno spartiacque: non si può fare storia dell'arte allo stesso modo prima e dopo aver visto quello che si è visto all'Aquila.
Nel suo ultimo libro, Le pietre e il popolo, dopo aver citato Piero Calamandrei («Una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente») scrive: «Camminare per L'Aquila permette di capire che l'articolo più polemico è, oggi, l'articolo 9. All'Aquila la repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando a tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana». Crede davvero che lo Stato italiano, all'Aquila, abbia compiuto una simile rinuncia all'esercizio delle sue prerogative fondamentali?
Io credo di sì. Questo naturalmente non toglie il fatto che moltissime persone e moltissimi di quelli che, non senza retorica, vengono definiti “servitori dello stato”, abbiano fatto fino in fondo il loro dovere. Ma lo Stato, nel suo complesso, ha tradito L'Aquila. Il commissariamento è stato un'esperienza di tradimento, oltre che di fallimento totale. Ancora una volta si è premiato l'interesse privato degli speculatori e si è abbandonata una città.Quale paese del mondo avrebbe lasciato a terra tre anni e mezzo uno dei suoi centri monumentali più grandi e importanti, un centro che era vivo e abitato? Possibile che lo Stato sia sparito fino a lasciare i monumenti dell'Aquila distrutti mettendo in atto, al tempo stesso, l'idea folle, criminale, di deportare i cittadini del centro altrove? Tutto ciò mi sembra la dimostrazione di come la Costituzione continui ad essere non solo una polemica, come diceva Calamandrei, ma una condanna dello stato delle cose.
Non solo la giornata di oggi. Ha partecipato, ieri, all'incontro sulla costituente dei beni comuni.
Sono molto contento di essere stato invitato, è un evento al quale ho aderito con convinzione. Il patrimonio storico-artistico è un importantissimo bene comune. Credo sia molto importante chiarire qual è il progetto della nostra Costituzione sul nostro patrimonio. Negli statuti duecenteschi della fondazione dell'Aquila, una volta divisa la città in quattro quarti, si stabilisce che i singoli cittadini ai quali vengono assegnati i locali, cioè gli spazi, nei quali costruire, possono iniziare a farlo solo a una condizione: costruire, come soci, cioè come comunità, strutture sociali, vale a dire piazze, fontane, chiese. Questo vuol dire che, all'epoca, c'era una prevalenza dell'interesse pubblico, dello spazio pubblico, sulla dimensione privata. Uno schema che noi abbiamo completamente ribaltato: stiamo privatizzando tutto, e quello che è pubblico non conta più nulla.
Quando è iniziato, secondo lei, questo processo che ha visto lo Stato cedere a società private con fini di lucro parti cospicue del proprio patrimonio culturale?
Direi agli inizi degli anni Ottanta con l'ondata neoliberista che ebbe i suoi vertici con il governo della da me non molto compianta signora Thatcher e con Reagan negli Stati Uniti e che in Italia si incarnò nel tradimento storico di Craxi e del socialismo italiano che passarono totalmente dalla parte del liberismo. Tutto ciò, naturalmente, ebbe delle ripercussioni anche nella gestione del patrimonio artistico: fu all'epoca che cominciò ad affermarsi la dottrina del patrimonio artistico come “petrolio d'Italia”, una terribile metafora che tira in ballo una risorsa non rinnovabile che va bruciata per generare energia. Fu Gianni De Michelis, all'epoca ministro del lavoro, uno dei primi ad usare questa orribile espressione.
Una dottrina che, bisogna ammetterlo, gode ancora di grande fortuna, visto che la sentiamo ripetere spesso anche oggi non solo dai politici ma anche dai media. Quando si parla di patrimonio culturale non lo si fa più riferendosi alla sua funzione conoscitiva, educativa, civile, ma solo al suo potenziale economico.
Per risponderle le farò un paragone un po' brutale. Dire che il patrimonio è un volano per l'economia e che per questo va salvato è come dire che il sesso va praticato perché è un volano per la riproduzione, affermazione condivisibile soprattutto da chi non ne fa...Ho l'impressione che nel nostro Paese non ci sia un'abitudine alla cultura. Chi fa questi discorsi non sa che cos'è il patrimonio storico e artistico. Pensare che esso vada conservato non perché ci civilizza, innalza la qualità della nostra vita, perché ci dà uno spazio di esistenza non sottoposto alle leggi del mercato, ma perché conviene economicamente, vuol dire non avere mai provato cosa vuol dire frequentare veramente il patrimonio. E la colpa di tutto questo è anzitutto di noi storici dell'arte, che evidentemente non abbiamo saputo spiegare abbastanza bene a che cosa serve davvero il patrimonio. C'è un problema di analfabetismo generale non solo della politica ma più in generale della classe dirigente italiana, giornalisti e media compresi. E' un altro dei motivi per cui abbiamo deciso di venire all'Aquila: serve una grande rialfabetizzazione al patrimonio. Non si può tutelare ciò che non si ama e non si può amare ciò che non si conosce.
Non a caso, sempre nel suo ultimo libro, lei scrive: «La storia dell'arte è una disciplina sempre più autoreferenziale, incapace di incidere sul mondo reale».
La storia dell'arte ha trovato comodo asservirsi a questo nuovo andazzo, che la vuole disciplina utile a organizzare mostre invece che a far capire, ad esempio, cos'è un centro storico. Bisognava resistere e invece la storia dell'arte ha ceduto. I miei colleghi delle soprintendenze fanno un lavoro molto più duro di noi docenti e vengono pagati ancora meno, c'è una delegittimazione sociale. Non parliamo, poi, della scuola e dei professori di storia dell'arte, che combattono una battaglia davvero infame contro le pochissime ore che si dedicano alla materia, i manuali inadeguati, la scarsissima considerazione in cui la disciplina viene tenuta.La storia dell'arte è diventata un qualcosa associato al bello, al divertimento e all'intrattenimento, è vista come qualcosa si superfluo e noi in fondo ci siamo adagiati su questa idea e abbiamo iniziato a dedicarci ad allietare il tempo delle ricche dame che cercano qualcosa da fare la domenica pomeriggio.Ma così facendo abbiamo radicalmente tradito la nostra missione e tra un po' non avremo più nulla da studiare perché questo patrimonio, come sappiamo, giorno per giorno si sgretola. Lo sfascio del patrimonio è connesso con lo sfascio della vita civile italiana e del Paese.
All'Aquila c'è stato un concorso pubblico per assumere trecento nuove persone da impiegare negli uffici della ricostruzione ma non si è pensato, ad esempio, a rinforzare l'organico della Soprintendenza.
In realtà si tratta di un annosissimo problema...La cosa stupisce anche perché l'ex ministro Barca ha voluto fortemente che Pompei assumesse nuovi archeologi e altre figure dotate di competenze specifiche nella tutela del patrimonio. Il nostro è un paese in cui si è diffusa questa idea secondo la quale le soprintendenze sarebbero uffici pullulanti di nullafacenti. Infatti ogni anno, quando si scrive la finanziaria, la prima cosa su cui si va a tagliare sono i fondi destinati alle soprintendenze. Quando poi ci sono i crolli ci si chiede come siano stati possibili. Se si taglia sulle soprintendenze si taglia sulla manutenzione, sulla ricerca, sulla conoscenza.Se io fossi stato il ministro dei beni culturali avrei stabilito, per un po', la sede del ministero all'Aquila. Poteva essere l'occasione per fondare un'altra grande scuola di restauro, la terza dopo quelle di Roma e Firenze, perché L'Aquila sarà, nei prossimi venti anni, il più grande cantiere di restauro al mondo. Come è possibile non sfruttare tutto questo a fini didattici, educativi, per dare occupazione? Sarebbe, peraltro, occupazione di grande qualità. A me pare che, prima ancora dei soldi, a mancare siano soprattutto le idee.
A proposito di ministri, cosa pensa del ministro Bray, successore di quell'Ornaghi da lei criticato in più occasioni?
Guardi, ho qualche perplessità legata al giudizio drasticamente negativo che nutro su questo governo consociativo e sul modo con cui è nato. Un governo che decreterà, se non l'ha già fatto, la fine della sinistra italiana. Ciò detto, il ministro Bray mi ha telefonato qualche giorno fa per dirmi che domenica verrà all'Aquila. Vuol dire che il suo primo atto pubblico da ministro sarà partecipare all'Aquila a un'iniziativa organizzata dal basso anche con forti accenti polemici nei confronti del ministero stesso. Mi sembra che, rispetto all'arroganza di Ornaghi, tutto ciò segni un passo avanti indiscutibile.
Lei mesi fa, sulle pagine e sul blog del Fatto Quotidiano, aveva criticato, insieme ad altri storici dell'arte, il progetto del parcheggio sotterraneo con centro commerciale annesso che il sindaco Cialente aveva sottoposto all'attenzione della cittadinanza.
Domani, nel documento finale, ribadiremo la nostra contrarietà non solo al parcheggio sotterraneo ma a ogni forma di trasformazione del centro storico dell'Aquila in Aquilaland, una specie di grande luna park a tema. Avete una delle piazze del mercato più grandi e belle d'Italia. C'è qualcuno che vorrebbe traforarla per realizzare un parcheggio e un centro commerciale. E' una forma di follia.
A proposito di trasformazioni del centro storico. Nel famoso documento Ocse “L'Aquila smart city” si propone di cambiare la destinazione d'uso degli edifici del centro. Associazioni come Italia Nostra ma anche noti urbanisti come Vezio De Lucia hanno chiesto di cancellare questa parte. De Lucia, in particolare, ha detto che i centri storici sono un organismo unitario, dove non è più possibile, come si faceva una volta, gli edifici di pregio destinati alla conservazione dal tessuto edilizio di base. Questo cosa vuol dire, che bisogna ricostruire per forza secondo il principio del “com'era, dov'era”? Questo approccio sembra non piacere in primis a molti comitati cittadini e a molti residenti del centro storico.
Il com'era dov'era non è un principio filologico caro agli storici dell'arte, è il recupero della funzione civile, sociale e affettiva dei monumenti e del loro contesto. Il problema infatti non è il singolo monumento ma il tessuto del centro storico. Se perdiamo quello perdiamo tutto. Io credo che il centro vada ricostruito proprio com'era e dov'era, certamente più sicuro dal punto di vista sismico; ma non è pensabile trasformarlo in qualcos'altro. Cosa si vuole fare, riportare in centro solo la metà dei cittadini che c'erano prima? La morte dei centri storici inizia proprio con il loro spopolamento. Se noi mettiamo le basi a tavolino per cui nel centro dell'Aquila tornino, ad esempio, metà dei residenti che c'erano prima, condanniamo il centro a una mutazione e a una caduta della qualità della vita. E' importantissimo che nel centro dell'Aquila tornino al più presto le funzioni pubbliche, i negozi e soprattutto i cittadini e qui sarà dura perché i cittadini-proprietari hanno un interesse ma quelli che erano in affitto e che hanno avuto una casa nelle new town dovranno avere dei forti incentivi per tornare. Io credo che occorra costruire non centri commerciali e non una smart city intesa come una città in stile Las Vegas dentro un guscio antico ma battersi perché L'Aquila torni ad essere quella di prima. Questo non vuol dire, naturalmente, rinunciare, ad esempio, a cablarla perfettamente, a cavare il bene dal male e a dotare il centro di tutto ciò che può rendere la vita più semplice e più bella.
Il terremoto non ha distrutto solo il centro storico dell'Aquila ma anche molti piccoli borghi. Riguardo questi ultimi, spesso si sente dire che l'unico modo che hanno per sopravvivere è l'adozione del modello S. Stefano di Sessanio. Ora, a parte che non è un modello così facilmente replicabile, ma non si tratta proprio di un caso emblematico di centro storico alienato da un privato per realizzare profitti?
Io personalmente sono contrario a quel modello anche se mi rendo conto del fatto che a volte è l'unica strada possibile. E' come quando un'opera d'arte non può più rimanere nel luogo per cui è stata creata e viene musealizzata. E' meglio musealizzarla o è meglio perderla? E' ovvio che è meglio musealizzarla. Facendo questo la salvi ma spezzi tutto quel fascio di significati che la tenevano legata al luogo per cui era stata creata. E' una sconfitta. Allo stesso modo mi pare che quello che è stato fatto a S. Stefano sia una sconfitta ma la meno dolorosa delle sconfitte possibili. Anche qui, comunque, a monte c'è una mancanza di iniziativa pubblica, c'è un'assenza di fantasia. Siamo sicuri che quella era l'unica soluzione possibile? Il dubbio ce l'ho. Io credo sia sempre preferibile una scelta in cui rimane la vita reale attaccata a un luogo e non la sua museificazione/mercificazione. Purtroppo nell'Italia di oggi siamo messi di fronte, molto spesso, a casi estremi in cui l'alternativa è, da una parte, la museifiazione e, dall'altra, la morte fisica del monumento o del paese. Bisogna lavorare per non arrivare più a questa tragica scelta.