Venerdì, 24 Aprile 2015 16:12

L'etica del fotoreporter: intervista al fotografo Danilo Balducci

di 

Importanti riconoscimenti per il fotoreporter Danilo Balducci. Il fotografo aquilano è risultato Absolute Winner nella categoria "People" al Fiipa (Fiof Italy International Photography Awards). I quattro scatti vincitori provengono da diversi lavori: dal Mar Morto, a ciò che resta delle stragi naziste in Lettonia, passando per gli homeless (nella foto).

Balducci ha inoltre ricevuto cinque Honorable Mention nelle categorie "Reportage", "Portraits" e "People". Le sue foto si sono imposte all'attenzione della giuria di Where Eagles Dare, appuntamento dedicato alla fotografia internazionale e alla comunicazione visiva promosso da undici anni dal Fiof, Fondo Internazionale per la Fotografia, Video e Comunicazione, svoltosi dal 6 all'8 marzo ad Orvieto (Perugia). Ultimo, infine, un premio che arriva dagli Usa. L'International Photography Awards (Ipa) lo ha premiato, il 20 aprile scorso, con una Honorable Mention per un'immagine scattata in Egitto durante un reportage su Garbage City, la città dell'immondizia del Cairo. Si tratta di uno dei più grandi centri di riciclaggio del mondo dove, come ci racconta lo stesso Balducci, ogni notte donne ed uomini raccolgono l'immondizia di tutto Il Cairo per poi dividerla e rivenderla.

Raccontare con immagini realtà estreme come quella di Garbage City è una responsabilità sociale e morale per un fotoreporter. Si tratta di un lavoro che, nella sua essenza, si muove sempre sul filo di rasoio dell'etica. Ne abbiamo parlato con Danilo Balducci.

C'è secondo lei un punto in cui il fotografo deve fermarsi? Esiste cioè qualcosa che non è giusto raccontare?
Secondo me no. Se scegli di fare il fotografo, devi fotografare. Se il nostro lavoro è mostrare qualcosa io non credo che ci sia un limite per fermarsi. Forse l'unico limite che io potrei capire è quando si arriva a raccontare troppo sangue e devastazione, quando insomma si arriva allo splatter, al pulp. Io comunque credo che sia giusto chiedere sempre prima di scattare, quantomeno nelle condizioni più estreme. Ritengo quindi che il limite etico non consista tanto in cosa stai dicendo e quanto è duro ciò che stai dicendo, ma consista nel dire la verità: non posizionare le persone e non cambiare la scena.

Si è mai trovato in una situazione in cui hai deciso di non fotografare o di intervenire in qualche modo?
Mi è capitato solo una volta di abbassare la macchina fotografica davanti a un funerale di un bambino dopo il terremoto che aveva colpito l'Algeria. Era presente solo il padre, che stava mettendo questo bambino nella tomba. Sono sicuro che sarebbe stata una foto stupenda però non ho scattato perché mi sono detto che era un momento troppo "suo". A volte, ho invece posato la macchina fotografica, dopo aver scattato, per dare il mio aiuto: come quando, nel 2002, ho aiutato i volontari in Galizia a ripulire la spiaggia dopo sfondamento della petroliera Prestige.

Tra le foto premiate ce ne sono tre che raccontano manifestazioni. Come si pone, come fotografo, nel raccontare anche momenti di tensione?
Generalmente tutte le manifestazioni cui partecipo sono abbastanza a rischio, però non è possibile essere super partes. Devi essere in parte schierato: o decidi di stare con la polizia, o con i manifestanti. Io mi butto dalla parte dei manifestanti e decido di starci in mezzo, sempre. Quando c'è stata la protesta degli operai della Thyssen, io c'ero proprio dentro e ho fotografato un Landini ferito.

Il fatto di schierarsi ha poi un'incidenza sul lavoro finale?
No perché se partono gli scontri comunque tu ti ritrovi in mezzo e hai la possibilità di fotografare entrambe le parti. La scelta etica, per tornare al discorso di prima, sta allora nella scelta delle immagini, nel far vedere la verità. Se in quel caso la polizia ha caricato per prima e senza motivo io l'ho dimostrato, l'ho fatto vedere.

Con l'avvento del digitale e del web siamo invasi da immagini che provengono da tutte le parti del mondo. Che valore ha oggi la fotografia di reportage?
Ha lo stesso valore di un tempo. Sono solo cambiati i mezzi: è tutto più veloce. Il digitale ha facilitato ed ha fatto sì che aumentassero il numero di fotografi. Ci sono molti che non hanno fatto gavetta, che non conoscono il lavoro. Adesso sembra che basti comprare la macchina fotografica da Mediaworld e diventi fotografo. Ovviamente non è così. Lo si può capire poi dalla qualità delle immagini che realizzano. Fondamentalmente, quindi, la bella fotografia è rimasta la bella fotografia, gli scatti da Facebook sono un'altra cosa. Il problema a questo punto è l'alfabetizzazione del ricevente, cioè se, chi riceve queste immagini, è in grado di discernere il bello dal brutto.

Anche una immagine veritiera da una che non lo è.
In realtà ci sono moltissimi fotoreporter che manomettono le immagini, con Photoshop è molto facile. Ma questa è una cosa che è sempre esistita: solo che allora la manomissione avveniva in camera oscura. D'altronde era il gioco preferito dei dittatori far sparire le persone dalle foto. Il problema oggi è avere un'etica professionale: il Photoshop che rimane nei limiti della camera oscura, cioè luminosità, contrasto e quant'altro, può esserci ma se poi togliamo oggetti e aggiungiamo altro, non si tratta più di post-produzione ma di vera e propria manomissione. Conosco fotografi che farebbero di tutto per vendere un'immagine. Il problema reale è che poi la manomissione delle foto altera la memoria e la storia. Anche in questo caso, è una questione etica e di coscienza.

 

Ultima modifica il Venerdì, 24 Aprile 2015 17:10

Articoli correlati (da tag)

Chiudi