di Sara Ciambotti - Le sue foto fanno il giro del mondo. Raccontano di guerre, pace, immigrazione, malattia, ma anche di balli, sorrisi, gioia di vivere. Marco Longari quest'anno compie cinquant'anni, e da gran parte della sua vita vive in posti difficili, dove la semplice sopravvivenza è messa a repentaglio da ogni tipo di calamità naturale e umana.
Quando aveva trent'anni ha iniziato a studiare fotografia all'Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata di Roma e da allora, con la sua macchina fotografica, è partito e non si è più fermato. Ha vissuto per molti anni a Gerusalemme e ha fotografato la primavera araba, la caduta di Mubarak e le prime elezioni in Egitto dopo la
fine di Mubarak, la guerra in Siria e quella israelo-palestinese. Ora lavora per una delle agenzie più grandi del mondo, la Afp (Agence France Press, ndr). Nel 2012 è stato scelto dal Time come miglior fotografo di news al mondo.
Ora vive in Sudafrica con sua moglie e i suoi due figli, nati in Kenya e in Ruanda. E se gli si chiede come la sua famiglia affronti la sua professione, sorridendo risponde: "se avessi fatto il minatore ci sarebbero stati altri problemi".
Marco, cosa rappresenta per te la fotografia?
La mia vita, la mia passione, il mio lavoro.
Per lei hai deciso di partire, mettendo a repentaglio la tua vita.
Non posso permettermi di non considerare la contemporaneità di ciò che avviene senza conoscere le vicende mettendoci il naso in prima persona. Per questo ho scelto di andare a vivere sette anni in Medio Oriente e ora in Africa. Tutto quello che vivo mi lavora dentro, fermenta ed entra a far parte della mia storia personale.
Sei una persona curiosa?
No, ma voglio capire e non mi accontento della superficialità.
Con la tua macchina fotografica hai immortalato le guerre più violente e le zone di crisi più importanti del mondo. Quelle da cui la gente scappa senza voltarsi indietro. Quanto c'è di passione, imprudenza e coraggio?
Sicuramente la fetta più grande del mio essere è costituita da passione; imprudenza e coraggio sono a pari merito. Non sono una persona imprudente, cerco di coltivare la prudenza ed è una delle qualità che più apprezzo nel fotografo. Nell'agenzia per cui lavoro, sia adesso in Africa che prima a Gerusalemme, sono responsabile di un gruppo di fotografi e alle persone che lavorano con me cerco di trasmettere che l'irresponsabilità è una caratteristica che non va coltivata.
Ma quando si è giovani e alle prime armi si ha voglia di fare, andare, vedere...
Quando si è giovani si commettono molte sciocchezze e l'imprudenza soppianta l'inesperienza. Con il passare del tempo diventi esperto, ma non serve a nulla se non si ha prudenze e purtroppo, al momento, non c'è una cultura della prevenzione verso quello che succede.
Tu cosa insegni ai tuoi fotografi?
Tutti noi dobbiamo seguire delle linee ben precise o si rischia il posto di lavoro. La storia non siamo noi che perdiamo la vita, un fotografo morto non serve a nessuno. La prudenza alle mie spalle è la nostra rete di sicurezza.
E dove nasce?
Nell'esperienza messa a confronto con l'esperienza dell'altro.
La paura ti ha mai salvato la vita?
Col senno di poi, sì.
Qual è il rischio più grande per un fotografo?
La contaminazione. Il rischio più grande è di non essere accurati, non saper ascoltare e vedere le cose che accadono così come sono realmente. È importante coltivare la soggettività e il punto di vista degli altri affinché si sia più autentici possibile. La gente beve il pregiudizio altrui. Nel mio caso la fotografia è evocazione, lascia spazi dove le cose non sono dette.
Il web pullula di immagini scioccanti: bambini morti e decapitazione sono solo due degli esempi cronologicamente a noi più vicini. Tra i fotografi, l'etica è scissa in due grandi scuole di pensiero: mostrare, mostrare, mostrare, per permettere allo spettatore di capire e perché no, arrabbiarsi e reagire e il rispetto delle vittime prima di ogni cosa. Tu come la pensi?
La violenza pura senza contesto aiuta chi fa della propaganda, chi prolifica e guadagna anche se non sempre in termini economici, ma in immagine e popolarità. Per me è sbagliato cercare di approfittarne così come pensare di erigersi a censore e decidere a priori ciò che è troppo. Credo ci sia un terzo modo di comportarsi nel caso di una foto estremamente violenta: io costruisco delle quinte, che spero forniscano a chi legge le foto una chiave di lettura composita, che gli permetta di contestualizzare e capire il mio pensiero in merito. È una struttura di informazioni aggiunte che consente di sostenere lo sguardo.
Ti sei mai trovato a scegliere di abbassare la macchina?
All'inizio è capitato, in Kosovo, quando mi sono trovato per la prima volta di fronte ai rifugiati, che in quel caso erano sfollati. Era la prima volta che li vedevo dal vivo e mi sono sentito a disagio, ho preferito aiutarli anziché scattare.
Pensi di aver sbagliato?
A posteriori sì. Nonostante sia convinto che non si sbaglia mai a essere autentici con se stessi, penso anche che mio lavoro sia fare le foto e raccontare le storie. L'importante è cambiare atteggiamento e capire che è possibile aiutare e fare foto, insieme. Non si deve mai avere paura di raccontare, mai dimenticarsi di essere un essere umano. Ci sono condizioni tra gli uomini che non possono essere negoziate.
Può, un fotografo, dare dignità a una persona in fin di vita?
C'è una polemica sterile e vecchia di decenni, riguardo l'estetizzazione della sofferenza. Ha fatto dei danni quanto una bomba atomica. Quando una persona mi apre le porte alla sua sofferenza e mi permette di stargli accanto ed esserne testimone, io ho il dovere di restituirgli dignità. L'unico modo che ho di dirgli grazie è usare quello che so rispetto alla fotografia, alla comunicazione e alla capacità di tradurre in immagine, e raccontare il suo momento, tanto importante per un essere umano. L'aspetto intellettualistico della sofferenza degli esseri umani mi sta antipatico. Ci si deve concentrare su quello che si ha intorno, non alla mera foto del morente.
Che odore ha la guerra?
Ha l'odore del silenzio. Quando scatto trattengo il respiro, magari ho la maschera antigas o il casco, sono concentrato sulla macchina e mi si spegne l'udito. Mi immergo. Ecco, quella sensazione la associo al silenzio.
Quanto, il tuo lavoro, influenza le scelte dei grandi della terra?
Tempo fa si disse che Bill Clinton decise l'intervento in Ruanda solo dopo aver letto il libro di Philip Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Questo, per me, è una pretesa illusoria. Io sono soddisfatto se la signora che vede le mie foto si indigna.
Nel 2012 Time ti ha scelto come miglior fotografo di news al mondo. Quanto hai sentito il peso di questa responsabilità?
Molto. Non verso il mio pubblico, bensì su me stesso per mantenere e migliorare lo standard. Mi sono sentito inchiodato alle mie responsabilità.
Rimanendo in tema: il fotografo taglia, seleziona, glissa e sceglie. Sicuramente una grande responsabilità se si tratta di raccontare i dissidi dell'uomo nel mondo. Purtroppo o per fortuna, completezza e omissione andranno sempre a braccetto. Come vivi questo aspetto della fotografia, soprattutto quando si tratta di raccontare una storia?
Non si può raccontare completamente una storia se non la si conosce. E l'editing si può fare solamente quando si ha una comprensione importante di quello che si sta raccontando.
Il tuo libro feticcio?
Le città invisibili, di Italo Calvino. Mi piace pensare che svelo città invisibili.