Era il 28 agosto di cinquant’anni fa. Davanti ad una folla di 250mila persone, radunate al Lincoln Memorial di Washington, Martin Luther King pronunciava un discorso destinato a restare impresso nel marmo vivo della storia.
I have a dream. Ho un sogno. Quello di vedere ogni uomo uguale all'altro. Sei mesi dopo, il 10 febbraio 1964, gli Stati Uniti approvavano la legge per i diritti civili e, nel dicembre dello stesso anno, il reverendo veniva insignito del premio Nobel per la pace.
“Io sogno che i miei quattro bambini, un giorno, possano vivere in una nazione in cui non verranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per la sostanza del loro carattere”. Martin Luther King seppe condensare la potenza del suo messaggio in poco più di 10 minuti. Che cambiarono per sempre la lotta contro il razzismo e la segregazione razziale.
“He’s damn good”, è proprio bravo, commentò il presidente Kennedy che, alla Casa Bianca, aveva visto e ascoltato King nella diretta televisiva.
Linguisti, filosofi, ghostwriter, teologi, esperti di comunicazione hanno sezionato e analizzato il discorso da qualsiasi prospettiva. “Hanno cercato nel ritmo, nella circolarità, nelle ripetizioni da sermone, nella scelta di parole ricorrenti, nel tono e nell'impianto retorico gli ingredienti segreti di quel discorso immortale” scrive Mattia Ferraresi, autore del libro "Obama. L’irresistibile ascesa di un’illusione", ed esperto di comunicazione politica americana.
La genesi di quello storico discorso nasconde alcuni segreti che sono stati ripercorsi da Clarence Benjamin Jones, consigliere e amico intimo del reverendo, e autore del libro "Behind the Dream: The Making of the Speech that Transformed a Nation" (Dietro al sogno. Come è nato il discorso che ha cambiato la nazione).
“Non tutti lo sanno, ma soltanto i primi sette paragrafi del discorso erano preparati", racconta Jones. Avevamo selezionato insieme i temi e lui aveva steso il testo. Poi a un certo punto Mahalia Jackson, la grande cantante gospel che aveva aperto la manifestazione, ha iniziato a urlare: "Parla del sogno, Martin! Parla del sogno!". Ero a pochi metri di distanza e ricordo benissimo che King ha accantonato i fogli e ha preso a parlare a braccio. La parte che è entrata nella storia era in realtà improvvisata, ed è anche questa la sua forza. Con un discorso spontaneo ha espresso un concetto che si può riassumere in tre parole: All, Here, Now. Vogliamo tutto, qui e ora. Non possiamo tralasciare il valore che la spontaneità e l'improvvisazione hanno avuto quel giorno”.
La marcia su Washington fu il culmine di una lotta per i diritti civili iniziata nel lontano 1955 a Montgomery, in Alabama, quando una sarta di nome Rosa Parks si rifiutò di cedere il suo posto in autobus ad un passeggero bianco. Anni dopo, numerose associazioni si diedero appuntamento nella capitale degli Stati Uniti per dimostrare al mondo la forza dirompente delle loro idee. Chiedevano un salario minimo di 2 dollari, il passaggio di un disegno di legge significativo sui diritti civili, la fine della segregazione razziale nelle scuole, un programma di lavori pubblici federale e il blocco delle pratiche di lavoro scorrette.
Se per tutti gli afroamericani la marcia fu sinonimo di speranza, per i bianchi significò soprattutto paura. Il governo mobilitò 6.000 poliziotti, 2.000 aderenti alla Guardia Nazionale e 4.000 soldati. La protesta, contrariamente alla previsioni, si svolse però pacificamente e segnò per sempre la storia degli Stati Uniti. Il cammino verso un'America più libera e più giusta era iniziato. “Il discorso di Washington segnò l’apoteosi del King pastore di anime, più profetico che politico”, scrive Bruno Cartosio su Il Manifesto. “Ma dal ’64, mentre finiva la fase delle lotte per i diritti civili, le rivolte urbane nelle metropoli del Nord, che trovarono in Malcolm X e nei suoi continuatori i loro interpreti, gli sottrassero il proscenio. Poi venne il Vietnam e King pagò duramente l’errore dell’appoggio a Johnson. Solo nell’ultimo anno di vita una svolta politica radicale, quando ammise che il sogno americano era diventato un incubo, gli restituì la credibilità perduta agli occhi della sua gente”. Il 4 aprile 1968, il reverendo venne ucciso a Memphis.
Esattamente 50 anni dopo, alla Casa Bianca siede il primo presidente afro-americano della storia degli Stati Uniti d’America. Inimmaginabile, ai tempi di Martin Luther King. La strada percorsa è stata lunga e faticosa, non è ancora finita però. Secondo un sondaggio realizzato dal Pew Research Center, il 45% degli americani ritiene che l'uguaglianza razziale sia ancora lontana. Non basta il successo al botteghino del film che racconta la storia del maggiordomo nero alla Casa Bianca, "Lee Daniels' The Butler", per dimostrare di essere un Paese più giusto. Lo dimostrano vicende controverse come quella di Trayvor Martin, il 17enne di colore ucciso in Florida lo scorso anno. Lo dimostra, soprattutto, la contestata assoluzione del suo assassino, il vigilante volontario George Zimmerman, che ha scatenato proteste in tutto il Paese.
Oggi, però, è il giorno del ricordo. Spetterà proprio a Barack Obama il non facile compito di pronunciare un discorso, al Lincoln Memorial, nell’anniversario di uno dei momenti più importanti nella storia del Paese che, proprio in queste ore, pare sul punto di intervenire militarmente in Siria.
Uno stralcio del discorso di Martin Luther King
"Amici miei, io vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E' un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell'arroganza dell'ingiustizia, colmo dell'arroganza dell'oppressione, si trasformerà in un'oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E' questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l'America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".