Un gruppo di giovani aquilani è appena tornato da un lungo viaggio nell'isola di Cuba. Uno di loro, tra un mojito e qualche percorso più prettamente turistico, tenta di capire tra le strada di La Habana come stanno oggi i cubani e cosa pensano realmente di Fidel Castro. Il suo immaginario legato alla rivoluzione, che pur ha portato istruzione e sanità pubblica gratuita per tutti, si scontra con le opinioni ricevute da molti giovani.
di Mattia Lolli - L'amore per Cuba ti entra dentro, in un secondo, quasi a tradimento, con quell'odore forte e penetrante che ti assale appena si apre il portellone dell'aereo. In un attimo ti ritrovi a camminare per le strade di La Habana ed ad abbandonarti ai suoni, i colori, gli sguardi ed i balli che ti avvolgono come se tu qui ci fossi già stato.
Puoi perderti tra un mojito ed un daiquiri nelle rotte turistiche alla ricerca del mito patinato di Hemingway o più semplicemente farti coccolare dalla totale mancanza di fretta, di direzione e di pensieri che si respira tra i corpi e i volti stupendi dei cubani e delle cubane.
L'impatto sconvolgente di questa atmosfera viva e straripante, che per certi versi è propria anche di altre realtà dell'America Latina e non solo, viene moltiplicato da una consapevolezza un po' romantica, che scava nell'immaginario adolescenziale che credevi addomesticato: sono a Cuba. Il carico emotivo ce lo mettono anche tutti i ritratti del Che e gli inni alla rivoluzione presenti in ogni strada, con stili diversi, in maniera forse anche troppo artefatta.
Inevitabilmente cominci a notare come a differenza di altri Paesi Latinoamericani non si avverta mai una sensazione di minaccia o di pericolo. Allo stesso modo la povertà, che è ben visibile in ogni angolo del territorio cubano, non si manifesta mai nella forma estrema di persone costrette a vivere per strada o in condizioni di degrado. E si trova ben presto anche pieno riscontro, parlando con i cubani, dell'efficacia del sistema di istruzione pubblica, obbligatoria e completamente gratuita, così come il sistema sanitario che garantisce a tutti i cittadini cubani l'accesso a qualsiasi tipo di cura, senza alcun costo. Sono queste forse le conquiste sociali più importanti della "revolucion" del 1959.
Qui lo Stato controlla tutto, dalle industrie ai beni primari, dai ristoranti agli alberghi, è praticamente tutto di proprietà statale, salvo alcune eccezioni frutto delle recenti liberalizzazioni cominciate a partire dal 2011.
Questo scontro con un modello sociale ed una storia così radicalmente diversa dalla nostra e così unica, comincia inevitabilmente a mettere in discussione tante delle tue certezze, nel bene e nel male, portandoti anche ad immaginare come un gruppo di pochi "barbudos", dotati solo di coraggio e fucile, siano riusciti nel giro di pochi anni a partire dalla Sierra Maestra per liberare il Paese dalla dittatura di Batista, caudillo piegato agli interessi della mafia italo-americana, vera fautrice del modello economico e sociale che caratterizzava cuba negli anni 50, col beneplacito dell'amministrazione a stelle e strisce, felice di poter ripulire la propria sporcizia in un cortile meno assolato di quello di Las Vegas.
La forza di quella storica lotta è ancora viva, nel mito del Che ma ancor più in quello di Camilo Cienfuegos, verso il quale l'amore incondizionato dei cubani restituisce un'immagine ben diversa da quello di semplice gregario della revolucion o piuttosto di Fidel.
Già ma che ne pensa la gente di Fidel? Con un po' di timidezza iniziale, dopo qualche giorno pensi sia il caso di cominciare a capirci qualcosa in più, e cominci a chiederlo. La prima reazione è guardinga, soprattutto in contesti affollati o in presenza di altri cubani. Inevitabilmente però alcuni nodi vengono al pettine. I salari sono da fame, in media non sopra i 30 euro mensili (anche per un medico o un professore), mentre i prezzi sono alti, altissimi se si fa riferimento a beni di consumo crescente tra i giovani quali cellulari, vestiti, ma anche il costo di una serata fuori con gli amici. Questa disparità acuisce le contraddizioni dei fenomeni quali il contrabbando, la prostituzione, il mercato nero, che prendono con facilità dalle tasche dei turisti somme che equivalgono a mesi e mesi di salario pubblico.
Quando racconto ad una giovane studentessa di medicina come il mito della revolucion ci abbia spinti fin lì, la sua risposta è il dito medio. Seguita da parole piene di rabbia sul fatto che la loro vita debba dividersi tra la scelta se utilizzare i pochi soldi a disposizione per mangiare o per uscire la sera, o piuttosto piegarsi ad una notte con un turista e permettersi così un paio di scarpe o una camicetta. Mi dice inoltre che il regime di Fidel è una merda, che lui ed il fratello hanno ricreato una dinastia, eliminando chiunque non fosse d'accordo con loro, inclusi il Che ed il mio amato Camilo.
Incasso il colpo e cerco di convincermi di aver incontrato una fervente anti castrista, magari in parte manipolata dalla propaganda Yankee (ma come ci sarà arrivata qui?). Cerco conforto nei racconti delle signore anziane che mi ospitano nella loro casa particular, che ricordano con voce quasi rotta il periodo antecedente la rivoluzione, quando lavoravano nella fattoria di un padrone, senza scarpe, senza bagni, per pochi pesos necessari a sopravvivere alla loro famiglia. Gli brillano gli occhi quando rievocano i giorni in cui "Fidel scese dalle montagne". Prima praticamente non c'erano né scuole né ospedali, mi spiegano, e mi raccontano di come sia cambiata quella realtà sociale in cui il 70% dei terreni era proprietà dell'8% della popolazione, prima della rivoluzione e della riforma agraria. Alla fine non possono non ammettere che per i giovani la situazione è difficile, visto che il mondo cambia, emergono nuovi bisogni (forse molti indotti, ma noi siamo i primi a subirli e chi siamo per criticarli?) e le crepe di un sistema così controllato, chiuso (uscire da Cuba per loro è quasi impossibile) sono ormai evidenti.
Ne esco un po' rinfrancato. Il knock out però arriva a freddo. Me lo dà un ragazzo cubano che conosco in piazza dos armes, parla italiano e lavora per un centro studi internazionale. E' incazzato nero con Fidel ed il regime. La sua rabbia è tale e così repressa che monta come un onda. Anche lui mi dice che i fratelli Castro hanno sostanzialmente ricreato una dittatura eliminando chiunque sulla loro strada, mi prefigura come prossimo presidente il marito della figlia di Raul, che continuerà la dinastia. Ma il colpo da cui non riesco più a riprendermi arriva sul piano politico, o forse umano. Mi dice che lui si sta sfogando con noi perché con gli altri non lo può fare. Sì, ha paura a dire certe cose in pubblico, si sospetta l'uno dell'altro temendo delazioni e la repressione di una polizia del regime il cui controllo è totale. Gli chiedo se ci sia partecipazione alla vita politica e mi ride in faccia. Mi spiega che i cubani ormai non pensano neanche più alla politica, non gli compete, non esiste alcun tipo di opposizione né di possibilità di movimento. Perfino l'università è uno dei luoghi dove il controllo e la propaganda raggiungono i livelli maggiori. Provo con poca convinzione a fargli presente le conquiste sociali della rivoluzione: l'istruzione, la sanità. Mi risponde che preferirebbe morire di fame ma essere libero di dire quello che pensa, di mandare a quel paese il regime. Questo dialogo avviene nella sconcertante consapevolezza del rischio che sta correndo a dirci queste cose, confermato dal suo continuo guardarsi intorno preoccupato.
Ormai è fatta, capisco che non sarò più in grado di tenere insieme i quattro specchietti in cui cercare l'immagine di un sogno che non c'è più, che forse non c'è mai stato. Capisco che non è importante la masturbazione intellettuale su anticastristi, CIA, embargo, mito della revolucion... una dittatura è una dittatura, ed è una merda.
Credo anche che bisogna avere il coraggio di dirselo proprio per il rispetto di quanti hanno combattuto e dato la vita per quella speranza, a cominciare da Camilo. E dobbiamo farlo con più forza noi che sappiamo che chi si scaglia di continuo e apertamente contro Cuba ed il suo modello lo fa per difendere quello marcio e decadente della democrazia delle banche, delle multinazionali, delle mafie, dell'imperialismo. Perché è ancora lì, lo sappiamo, ma non lo si combatte con il silenzio, la paura o il controllo e la repressione. Lo si combatte con il coraggio ed il rifiuto di ogni autoritarismo, propaganda e folle culto della personalità, che è ciò che è diventata la dittatura di Castro. Bisogna affrontare questa triste realtà e capire che non si può che odiarla e superarla. E' questo il miglior modo per difendere la rivoluzione.