Fuori le mura (2)
Da est a ovest: il ritorno dell’estrema destra in Europa
di Cecilia ValenteAlle elezioni ungheresi dello scorso 8 aprile, il premier uscente Viktor Orbán ha riconquistato la guida del paese per il terzo mandato consecutivo. La vittoria è stata netta: il suo partito Fidesz ha ottenuto il 49,5% dei voti aggiudicandosi 134 su 199 seggi in Parlamento, quindi la maggioranza assoluta. Alla vigilia del voto Orbán era dato in calo rispetto ai suoi precedenti mandati e si pensava che l’affluenza da record intorno al 69% potesse favorire le opposizioni, invece così non è stato. I partiti di opposizione non sono riusciti a creare un fronte compatto, anzi hanno dato luogo ad una frammentazione tale che nessuno di loro è riuscito a scalfire il potere del premier uscente. L’ex partito di destra estrema e xenofobo, Jobbick, con il 20% di voti è il secondo partito del paese, ma ha comunque 30 punti di svantaggio rispetto a Fidesz. Mentre il partito socialista, nato dal vecchio partito comunista di epoca sovietica, ha ottenuto solo il 12%.
Una vittoria senza dubbio eclatante, quella di Orbán, che il premier ha riconosciuto dicendo “Questa è una vittoria decisiva, in futuro saremo in grado di difendere la nostra madrepatria”. Avere i due terzi dei seggi in parlamento, in effetti, dà ad Orbán una buona libertà di movimento che gli permetterebbe anche di modificare la Carta Costituzione. Sovranista, anti-migranti, euroscettico e nazional conservatore, il premier ungherese porta avanti ormai da anni un’idea di “democrazia illiberale” sul modello di quella di Putin in Russia e di Erdogan in Turchia. Durante i suoi mandati l’Ungheria ha vissuto un periodo di grande crescita economica, con l’apertura di numerose fabbriche di high tech e il conseguente calo della disoccupazione: Orbán poteva contare quindi sul successo dei suoi anni al governo. Inoltre, il presidente ha usato il suo volto populista per mirare ai sentimenti e alle paure degli ungheresi: ha infatti ottenuto maggiore successo nelle zone rurali e tra la popolazione over 65, mentre a Budapest e tra i giovani hanno prevalso le opposizioni.
Tema principale della campagna elettorale è senza dubbio stata la questione migratoria. Orbàn è fortemente contrario all’apertura delle frontiere, al progetto di redistribuzione dei profughi all’interno dell’Unione europea e alla revisione del regolamento Dublino III. Il primo ministro aveva già suscitato le critiche di gran parte dell’opinione pubblica europea nel 2015 quando, durante la crisi migratoria che coinvolse tutto il continente, fece costruire un muro al confine con Serbia e Croazia per impedire l’arrivo dei profughi. Tre anni dopo, continua a far leva in particolar modo sul sentimento di paura degli ungheresi nei confronti dei migranti musulmani. In realtà, se i si vanno a scoprire i dati reali, si vede che la paura per il cosiddetto “pericolo invasione” è completamente infondata: nel 2016 gli stranieri in Ungheria erano circa 23.803 su 10 milioni di abitanti, ma quasi la metà di essi proveniva da altri paesi europei, per cui la percentuale di migranti e richiedenti asilo presenti sul territorio non è affatto elevata.
Intanto all’indomani del voto le opposizioni, che sono arrivate alle elezioni divise in diversi schieramenti, stanno facendo sentire la loro voce, cercando di superare divisioni ideologiche non facilmente superabili, vista la differenza netta dei loro punti di vista. Lo scorso 15 aprile, i manifestanti sono scesi in piazza a Budapest per chiedere il riconteggio delle schede e nelle prossime settimane ci saranno altre proteste. I cittadini accusano il governo di aver truccato le elezioni, anche se gli Osservatori internazionali dell’OSCE non hanno riportato alcuna anomalia nelle procedure di voto. Certo è che alcuni fattori fanno pensare che la campagna elettorale sia stata in qualche modo indirizzata, seppure non platealmente. Il partito di Orbán è stato chiaramente favorito dai media nazionali grazie alle varie riforme che il primo ministro ha portato avanti negli anni e che hanno limitato la libertà di stampa nel paese: nel 2010 ha istituito un Consiglio per i media con il compito di controllare i mezzi d’informazione. Nell’ultima tornata elettorale Orbán ha poi utilizzato fondi statali per finanziare la sua campagna e la TV statale ha chiaramente favorito Fidesz a scapito degli avversari. D’altro canto, alcuni giornali, come lo storico quotidiano Magyar Nemzet, sono stati costretti a chiudere, con la scusa di bancarotta, per aver condotto delle inchieste sulla corruzione all’interno del partito del presidente. Insomma, le elezioni sono state libere sì, ma influenzate da un potere mediatico spropositato nelle mani del primo ministro.
Il carattere principale della politica di Viktor Orbàn è il forte nazionalismo e il conseguente euroscetticismo, anche se durante la campagna elettorale il leader ha tirato fuori anche il suo volto populista. Nonostante l’Ungheria stia ancora ricevendo ingenti contributi dal fondo per la coesione dell’Unione Europea, il premier continua ad opporsi a quelli che chiama “diktat” europei. La strategia del primo ministro ungherese è, però, quella di contrastare le politiche dell’Unione dall’interno; visto il passato recente del suo paese, entrato da relativamente poco nell’Unione europea, e visti i costi che il recesso sta causando al Regno Unito, l’intenzione del leader ungherese non è di certo quella di uscire dall’UE. Il partito di Orbán, Fidesz, è infatti una delle componenti principali del Partito Popolare Europeo: ha 12 seggi nel Parlamento Europeo il che lo rende indispensabile per mantenere esponenti del partito europeo ai vertici delle istituzioni. Nonostante quindi Fidesz porti avanti una politica fondata sulla supremazia della politica nazionale su quella europea, i leader dell’PPE, Angela Merkel in prima fila, sono costretti dai numeri a tenerlo all’interno del partito che sta diventando un mix di idee e correnti che rischiano di scontrarsi su temi fondamentali del dibattito attuale. L’obiettivo di Orbán è quindi quello di riportare al centro la sovranità nazionale degli stati senza però rinunciare all’integrazione sovranazionale, o meglio, far sì che il livello europeo ci sia ma sia subordinato a quello statale.
La vittoria di Orbán va considerata su un piano più ampio: va oltre i confini ungheresi e echeggia in tutto il Vecchio Continente, dove i sovranisti stanno diventando sempre più forti. Facendo un giro per i paesi europei, il quadro politico sembra chiaramente virare verso una destra fortemente anti europeista, localista, xenofoba e nazional conservatrice. In Austria, il Partito delle libertà (FPÖ) di estrema destra ha ottenuto il 26% di voti andando così al governo e giocando anche un ruolo importante all’interno di esso (FPÖ ha ben quattro ministeri: Interni, Esteri, Difesa e Infrastrutture); In Slovacchia i nazionalisti del Partito Nazionale Slovacco (SNS) e di Nostra Slovacchia nel 2016 hanno ottenuto in totale il 16% e l’SNS è addirittura nella coalizione governativa. In Germania, l’estrema destra di AfD (Alternativa per la Germania) ha preso il 12,6% dei voti alle legislative del 2017 riuscendo per la prima volta a far eleggere suoi deputati in parlamento. In Francia, come noto, Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, dopo aver preso il 21,3% dei voti, è arrivata al ballottaggio con l’attuale presidente francese Macron e ha comunque ottenuto un buon 33,9% di consensi. In Italia, uno dei vincitori delle elezioni del 4 marzo è la Lega Nord, partito anti europeista considerato di destra radicale. Molti consensi anche per le formazioni apertamente neofasciste come Casa Pound. E ovviamente in Polonia, contro cui l’Unione Europea ha addirittura iniziato la procedura per l’applicazione dell’art. 7, a vincere le elezioni nel 2015 è stato Diritto e Giustizia. Partito nazionalista, in campagna elettorale prometteva una lotta dura contro l’immigrazione, contro i diktat europei e contro l’indipendenza dei media e dei giudici, considerati un pericolo per il paese.
L’idea che accomuna tutti questi partiti, seppur con le dovute differenze, è quella della centralità della sovranità nazionale, idea che si concilia poco con la natura sovranazionale delle politiche europee e del mercato unico. Il rischio è che si vengano a creare nuove divisioni all’interno dell’Unione in un momento storico in cui ci sarebbe il bisogno di muoversi uniti in un solo blocco. Data la situazione geopolitica mondiale sempre più instabile, l’Unione dovrebbe far sì che il suo ruolo sia ben riconosciuto a livello internazionale, e rispondere con un'unica voce ai nuovi pericoli che minacciano la sicurezza dei cittadini. Eppure sembra che i paesi membri siano sempre più tentati di rifugiarsi nel proprio nazionalismo e continuano a dividersi sui temi cruciali: i partiti sovranisti e conservatori, sull’onda dei sentimenti di paura e rabbia dei cittadini, si fanno portatori di questa corrente isolazionista e anti europeista, ottenendo sempre più consensi.
March For Our Lives: si infiamma il dibattito sulle armi negli USA
di Cecilia ValenteNegli Stati Uniti, all’indomani della strage di Parkland, si torna a parlare di armi e di sicurezza nelle scuole.
Lo scorso 14 di febbraio, infatti, alla Stoneman Douglas High School in Florida c’è stata una sparatoria che ha causato diciassette vittime. Nikolas Cruz, ex studente dell’istituto, è entrato nell’edificio armato di un fucile semiautomatico AR-15 e ha sparato almeno quaranta colpi, secondo le testimonianze. Diciassette persone, tra studenti e insegnanti, sono rimaste uccise e numerosi sono stati i feriti, di cui tre ricoverati in ospedale in condizioni molto gravi. Il killer, dopo aver tentato la fuga, è stato preso dalla polizia a pochi chilometri dall’istituto. Diciannove anni, Cruz era stato espulso dalla scuola per motivi disciplinari: i suoi ex compagni e professori parlano di un ragazzo problematico, ossessionato in passato da una ragazza ai limiti dello stalking.
Si tratta dell’ennesima strage in una scuola americana.
L’Everytown for Gun Safety, associazione che si batte da anni per un maggior controllo sulla vendita delle armi da fuoco, riporta dei dati incredibili. Diciannove sono state le sparatorie all’interno delle scuole dall’inizio del 2018, otto delle quali hanno causato vittime. È evidente che il deficit di sicurezza degli istituti scolastici americani sia un problema importante e quest’ultima sparatoria ha contribuito a riaccendere il dibattito sull’uso e possesso delle armi negli Stati Uniti.
La polemica in questi giorni sta correndo veloce sia tra le piazze delle città Statunitensi, sia sul web: sembra farsi sempre più grande e coinvolgere l’intera popolazione statunitense che comincia a mobilitarsi. Il coinvolgimento, emotivo e sociale, di una grande fetta di popolazione è sicuramente dovuto anche alla mediatizzazione di questo genere di eventi drammatici. La sparatoria avvenuta in Florida è stata seguita in diretta TV da milioni di americani. Elicotteri dei più importanti canali televisivi hanno trasmesso le immagini in diretta di ciò che avveniva all’esterno della scuola e della fuga del killer, tenendo i telespettatori incollati agli schermi. Il viavai dei mezzi di soccorso, i feriti sulle barelle davanti all’istituto, l’evacuazione degli studenti: tutto è avvenuto in diretta nazionale. Nei giorni successivi alla tragedia, poi, i social network sono stati inondati da screenshot delle conversazioni tra gli studenti che si trovavano all’interno della scuola e i loro genitori o amici. La condivisione di momenti così drammatici ha fatto sì che tutti gli utenti del web, in ogni parte del mondo, si sentissero emotivamente coinvolti nella faccenda.
Coinvolgimento che ha ridato vita al dibattito su dimensione nazionale.
Il paese e la politica rimangono divisi tra chi vorrebbe lasciare intatta la legislazione attuale in materia e chi invece vorrebbe delle restrizioni alla libertà di possesso delle armi. Numerose sono state in questi giorni le manifestazioni che chiedono a gran voce di mettere fine a queste stragi e rendere le scuole americane finalmente sicure. Mentre sui social impazza l’hashtag #NeverAgain e davanti alla Casa Bianca studenti, genitori e insegnanti invocano provvedimenti seri.
Il 24 marzo prossimo a Washington si terrà “March for our lives”, una marcia organizzata dai ragazzi di Parkland che sta raccogliendo tantissime adesioni. L’appoggio ai manifestanti arriva anche da diverse personalità di spicco del mondo statunitense: George Clooney e Oprah Winfrey hanno voluto donare 500 mila dollari alla causa, mentre lo show di Ellen DeGeneres ha ospitato alcuni ragazzi sopravvissuti alla strage e la conduttrice ha mostrato la sua maglia di #MarchForOurLives. Questa volta, quindi, per Donald Trump sarà difficile sfuggire alle richieste dell’opinione pubblica e la necessità di mettere fine a queste tragedie è ormai chiara a tutti.
I dati che vengono ribattuti in questi giorni dalle varie testate americane sono impressionanti e mettono in luce il bisogno impellente di prendere dei provvedimenti in merito al problema delle armi. Secondo alcune statistiche, gli USA possiedono quasi la metà delle armi per uso personale di tutto il mondo, ospitando il 4,4% della popolazione mondiale, ma ben il 42% dei civili armati. Sul territorio Statunitense si verifica, in media, più di una sparatoria di massa al giorno. Ma è davvero così facile entrare in possesso di un’arma? Nella maggior parte degli Stati USA sì. Basta avere 21 anni per acquistare una pistola, mentre ne bastano 18 per entrare in possesso di un fucile o un fucile a canna liscia. A parte poche restrizioni introdotte nel 1968 per alcune persone, in generale basta presentare un documento d’identità al venditore che dovrà solamente registrare i dati, associando il compratore all’arma. Per cui, per i ragazzi trovarsi in casa un’arma da fuoco non è una cosa così rara né difficile.
Fino ad ora, nessun presidente è riuscito a dare una vera svolta alla legislazione in materia. In parte perché l’opinione pubblica non è affatto compatta sull’argomento: parte degli americani vuole mantenere la legislazione così com’è, senza introdurre nuove restrizioni. Inoltre, gli interessi economici dietro al possesso di armi sono enormi e le lobbies dei produttori di armi da fuoco, grazie ad appoggi in Senato, non permettono alcun tipo di progresso in materia. Prendere dei provvedimenti seri in materia non è affatto facile, a prescindere da quale sia la volontà del presidente. Donald Trump, che negli anni 2000 si diceva favorevole a qualche restrizione sulla libera circolazione delle armi, nel 2015 ha cambiato completamente la sua linea. Candidatosi alle primarie repubblicane per la corsa alla Casa Biana, Trump si è fatto strenuo sostenitore del diritto al possesso di armi garantito dal Secondo emendamento della Costituzione Statunitense. Ha cominciato quindi a spostarsi su posizioni favorevoli alla NRA (National Rifle Association), la più potente lobby delle armi, il cui appoggio gli è valso notevoli aiuti economici per la sua campagna elettorale.
Dopo la strage in Florida, però, il presidente USA ha cominciato ad aprire in parte la sua posizione, proponendo alcuni provvedimenti che andrebbero contro l’interesse della lobby. Trump ha parlato di aumentare l’età minima per l’acquisto delle armi e di introdurre controlli più serrati sul background degli acquirenti, soprattutto per quanto riguarda precedenti penali e salute mentale. Restrizioni che non piacciono alla NRA. Davanti all’insistenza dei manifestanti che chiedono più sicurezza nelle scuole, quindi, Donald Trump sta cominciando a tirare fuori delle proposte di riforma. Il presidente ha affermato che “nessuno dovrebbe sentirsi insicuro nelle scuole americane” e di voler prendere “misure di difesa ma anche di attacco”. Ha infatti proposto di armare il 20% dei docenti per renderli in grado di rispondere ad eventuali attacchi a mano armata e si è detto pronto a stanziare dei fondi federali per addestrare gli insegnanti ad usare le armi.
La proposta ha subito scatenato le critiche del mondo politico e civile americano. È nato un nuovo movimento, creato dagli stessi insegnanti che sui social hanno lanciato l’hashtag #ArmMeWith. I docenti chiedono di essere armati non con armi da fuoco, ma con matite, penne e libri per aiutare i ragazzi a non arrivare al punto in cui è arrivato Nikolas Cruz. Prevenzione ed educazione sembrerebbero dunque essere le parole d’ordine che però non piacciono molto al presidente.
Link Everytown for gun safety: https://everytown.org/