Venerdì, 16 Agosto 2013 22:01

Egitto: la resa dei conti interna rischia di far sprofondare il Paese nel caos

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E’ difficile interpretare in maniera chiara, e senza rischio di cadere in banalizzazioni o errori di valutazione, quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni. Da un lato, appare tristemente evidente che la violenza cui stiamo assistendo fosse un avvenimento piuttosto prevedibile, se si guarda alla tensione che si era creata alla fine della scorsa settimana, quando l’esercito aveva minacciato di sgombrare anche con la forza le manifestazioni pro-Morsi al Cairo. Dall’altro, ciò che si fa fatica a comprendere è il perché della brutalità – ai limiti dell’odio – che si sta mettendo in campo da parte dei militari e delle nuove forze governative. Ciò a prescindere dai pretesti congiunturali che, se da un lato spesso fungono da scintille imprescindibili per far degenerare alcune situazioni, dall’altro nascondono una serie di tensioni latenti senza le quali non si spiegherebbero le improvvise manifestazioni di violenza. Dal momento che ciò è valido soprattutto quando si parla di scontri di natura interna – più soggetti a incancrenirsi con il tempo e più adatti a covare incomprensioni e odi reciproci –, anche per il caso egiziano è opportuno capire qual è lo scontro che si sta consumando.

Al centro di tutta la vicenda del “nuovo” Egitto post-Mubarak, nel bene e nel male, vi è la Fratellanza Musulmana. Quest’ultima rappresenta un movimento sociale e politico ben radicato in vasti settori del Paese, che per decenni ha subito una campagna di delegittimazione e repressione che ha contribuito a far sì che si creasse un sentimento di rivalsa, la quale è chiaramente emersa alle prime occasioni disponibili: prima le elezioni parlamentari e in seguito quelle presidenziali. In queste ultime Mohammed Morsi ha conseguito la vittoria, divenendo così il primo Presidente della storia dell’Egitto repubblicano a provenire dalla Fratellanza. Sicuramente vi è da dire che Morsi si è dimostrato incapace di governare con successo ed efficienza l’Egitto della transizione e che in alcuni frangenti le sue politiche si sono rivelate al limite dell’autoritarismo. Allo stesso tempo, però, non è sfuggito ai più attenti osservatori che il fatto che i militari in un primo momento abbiano “permesso” ai Fratelli Musulmani di prendere il potere fosse semplicemente funzionale a un altro obiettivo: emarginare il fronte dei riformisti che, nelle giornate di Piazza Tahrir, era quello che più di tutti spingeva per la caduta di Mubarak. Nel timore che questi ultimi potessero andare troppo oltre con le proprie rivendicazioni e smantellare il sistema esistente – di cui la classe militare ha sempre beneficiato, soprattutto dal punto di vista economico – l’esercito ha formato una sorta di alleanza di comodo con l’Islam politico, creando di fatto un fronte conservatore che, con il tempo, ha spazzato via le speranze dell’Egitto più progressista e secolare.

La resa dei conti interna, però, non era finita e, a ben vedere, sarebbe stata quella che vedeva coinvolti gli islamisti da un lato e i militari dall’altro. E’ per questo che, sfruttando il malcontento popolare di quella parte di popolazione che comunque continua ad essere sospettosa della Fratellanza, l’esercito ha posto in essere l’ennesimo colpo di mano, destituendo Morsi e instaurando un nuovo governo provvisorio. A conti fatti, si potrebbe dire che i militari, in tre mosse, hanno tentato di portare il Paese sotto il loro esclusivo controllo: hanno appoggiato la piazza riformatrice in funzione anti-Mubarak (temendo cosa sarebbe accaduto durante la sua successione e prevenendone gli esiti); in un secondo tempo hanno isolato gli stessi riformisti grazie alla convergenza di interessi con i Fratelli Musulmani; infine, per eliminare anche questi ultimi, sono ricorsi all’appoggio agli oppositori di Morsi. Nel far ciò, però, i militari hanno assunto una gravosa responsabilità: quella di spaccare in due il Paese e di creare una doppia frustrazione – dagli esiti imprevedibili – all’interno del fronte dei Fratelli Musulmani. Da un lato, quella di essere nuovamente repressi con inaudita violenza, come accaduto subito dopo la presa al potere di Nasser negli anni Cinquanta e, dall’altro, quella di subire una così feroce repressione nonostante fino a questo momento si fossero attenuti – pur con molti limiti, sicuramente da superare – a quelle regole democratiche che avrebbero dovuto essere quelle tramite le quali l’Egitto sarebbe dovuto rinascere.

Cosa accadrà ora? La speranza è che, dopo non essere riusciti a seguire il tanto decantato modello turco, né tantomeno il modello della Tunisia – in cui, pur tra mille difficoltà, il partito afferente alla Fratellanza, Ennahda, governa in coalizione con due formazioni secolari e socialiste, nonostante l’attuale crisi politica –, l’Egitto possa sprofondare verso modelli ben più spettrali: quello algerino o quello siriano. In Algeria, negli anni Novanta, il non riconoscimento della vittoria elettorale delle forze islamiche e il colpo di Stato attuato dall’esercito portò a dieci anno di guerra civile e centinaia di migliaia di vittime; in Siria la guerra civile è una triste realtà ancora oggi, e ancora ben lontana dalla soluzione. L’Egitto di oggi appare vicinissimo a uno scenario da vera e propria guerra intestina. La Fratellanza ormai non sembra voler cedere, ma i militari compiono, ogni giorno che passa, atti sempre più gravi di repressione. La democrazia intesa come ha fatto l’esercito lo scorso 3 luglio – e come continua a fare in questi giorni – è quella che nei confronti dell’Islam politico della Fratellanza distorce la massima di Voltaire in “non sono d’accordo con quello che dici e sono disposto a toglierti la vita affinché tu non lo dica”. In questo clima, le posizioni possono soltanto polarizzarsi sempre di più e, a questo punto, a giovarne sarebbero, come sempre in questi casi, le forze più estremiste. Ne sono una prova le violenze commesse da elementi radicali islamici contro le chiese in tutto l’Egitto e le preoccupanti notizie che giungono dal Sinai circa i continui attacchi di forze islamiche radicali contro obiettivi statali.

L’Egitto come nuovo fronte del jihad internazionale? Questo è un altro aspetto da prendere in considerazione, anche se è presto per capire se e come Il Cairo potrà diventare un nuovo teatro per l’islamismo radicale. Nel corso della storia, l’Egitto ha più che altro esportato ideali e correnti politiche – la Fratellanza, appunto, ne è l’esempio più lampante – piuttosto che importare instabilità o ideologie estremiste. L’islamismo radicale e il jihad contro lo Stato egiziano che si è espresso a partire dall’uccisione di Sadat nel 1981, fino a tutti gli anni Novanta, sono state a loro volta espressioni interne egiziane, debellate in parte da Mubarak. Un’eccezione, in questo senso, possono essere gli attentati del 2004 e 2005 sul Mar Rosso, attribuiti a gruppi islamisti esterni all’Egitto. Il vero timore, piuttosto, sembra essere che anche quegli stessi elementi più o meno moderati dell’Islam politico egiziano possano essere portati alla radicalizzazione dalle scelte e dalle azioni del governo e dell’esercito. Tentativi di infiltrazione da parte di organizzazioni terroristiche internazionali e regionali, comunque, non sono da escludere e, del resto, ciò ricalcherebbe quello che in precedenza è stato definito una sorta di scenario siriano. E’ ormai evidente che le manifestazioni più radicali del salafismo jihadista si palesino laddove si vengano a creare situazioni di caos e instabilità tali da poter essere infiltrate più facilmente. Qualora l’Egitto dovesse sprofondare in un conflitto interno ad alta intensità, potrebbe effettivamente entrare a far parte degli obiettivi dell’Islam radicale.

Un’ultima considerazione, infine, riguarda l’esperimento dell’Islam politico al potere nei Paesi interessati dalla cosiddetta “Primavera Araba”. Se in Egitto questo è fallito, è solo in parte per colpe proprie, dal momento che il naturale corso politico-istituzionale non è potuto procedere oltre l’anno di esperienza, per via del brutale intervento militare. D’altro canto, la Tunisia, sebbene stia attraversando una fase confusa e una crisi politica di dimensioni rilevanti, continua a costituire un esempio di come l’Islam politico possa continuare a condurre – non da solo, sicuramente – il processo di transizione democratica. Un aggettivo, quel “democratico”, che, inteso come esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini, nella maggior parte dei Paesi arabi – si veda il Marocco, ad esempio – si coniuga con Islam politico al potere. In Egitto questo principio base della democrazia, vale a dire il rispetto del voto popolare, è per il momento venuto a mancare. Ciò non vuol dire che a fallire sia stato – o non solamente – l’Islam politico.

di Stefano M. Torelli, pubblicato per Istituto per gli studi di politica internazionale

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