Sia detto senza infingimenti: Giovanni Legnini, per storia personale e politica, sarebbe stato il miglior presidente possibile per Regione Abruzzo. E sia chiaro: se l’ex vice presidente del Csm non avesse deciso di scendere in campo, non ci sarebbe stata alcuna coalizione civico popolare, il centrosinistra sarebbe andato in ordine sparso, non si sarebbero potute costruire 8 liste e tanti dei candidati non ci avrebbero messo la faccia. Stante l’eredità disastrosa del fuggiasco Luciano D’Alfonso, e le macerie lasciate a terra dal voto politico del 4 marzo scorso, il 31.28% ottenuto da Giovanni Legnini - undici punti percentuale sopra il Movimento 5 Stelle - è un risultato che, pur nella sconfitta, non può dirsi affatto negativo.
Sia detto altrettanto chiaramente, però: convincersi che è questa la base da cui ripartire, il modello su cui ricostruire un’area progressista credibile, in Abruzzo e nel paese, significa nascondere, di nuovo, la testa sotto la sabbia, tirare avanti fino alla prossima sconfitta elettorale. E invece, è arrivato il momento che la classe dirigente del fu centrosinistra trovi finalmente il coraggio di dirsi parole di verità, e farsi da parte.
Il laboratorio Legnini è stata una risposta puramente difensiva.
L’ampia coalizione civica e popolare si è raccolta intorno alla forza e alla credibilità del candidato presidente, che ha saputo tenere insieme storie personali e politiche diversissime che non si sarebbero mai parlate se non fosse stato per l’altissimo profilo istituzionale garantito dall’ex vice presidente del Csm. Il timore di una deriva sovranista, di destra e populista, ha fatto il resto, spingendo esponenti della sinistra abruzzese più radicale e moderati di centrodestra a condividere un pezzo di strada. E si sono messe in campo otto liste, con oltre 230 candidati sui territori, per tentare di fare argine al voto d’opinione, strappare più consensi possibile con una logica di prossimità che può essere determinante, in effetti, in una competizione elettorale come le Regionali.
Non è bastato.
Oltre le dichiarazioni e i propositi di una campagna elettorale scevra di contenuti reali, politicizzata su temi nazionali dal centrodestra e dal Movimento 5 Stelle, al laboratorio Legnini è mancato un progetto politico chiaro e credibile, una visione davvero rinnovata della società e della comunità regionale, un universo valoriale condiviso capace di riaccendere l’entusiasmo degli elettori progressisti, di ristabilire una connessione sentimentale andata in pezzi negli anni passati. Non si poteva certo pretendere che ci riuscisse Giovanni Legnini in un mese, ovviamente: l’ex vice presidente del Csm ha fatto ciò che doveva e poteva, anche di più. Sia chiaro, però: in tanti, tantissimi hanno votato Legnini per la credibilità del suo profilo; in tanti, tantissimi hanno scelto la coalizione di centrosinistra in contrapposizione al centrodestra e al Movimento 5 Stelle e non perché credessero davvero in un progetto politico capace di andare oltre le personalità politiche in campo.
Ecco il motivo per cui non si può parlare di punto di partenza, di base da cui ripartire.
Non si costruiscono progetti politici intorno ai leader del momento, e Matteo Renzi avrebbe dovuto insegnarlo: se Giovanni Legnini dovesse decidere domattina di ritirarsi a vita privata, il laboratorio abruzzese svanirebbe in un istante. Questa è la verità. Ed invece, c’è bisogno urgente di una proposta politica nuova, ai livelli locali e al livello nazionale, capace di restituire un universo valoriale condiviso, una rinnovata visione di mondo, e dei territori ovviamente, che possa anche tenere insieme tradizioni politiche diverse ma su un terreno di ‘incontro’ chiaro e definito.
Questo è il tempo delle proposte radicali - che non significa radicalismo, per intendersi - su ambiente, sanità, infrastrutture, lavoro, sul modo stesso di pensarsi società, e comunità. Soltanto con una proposta radicalmente definita, e chiara, la sinistra italiana, e abruzzese, potrà ritrovare l’entusiasmo per ricostruire davvero dalle macerie. Per riuscirci, va rinnovata profondamente la classe dirigente, ad ogni livello, vanno smantellati i piccoli centri di potere che hanno incancrenito il dibattito allontanando dalla politica la maggioranza dei cittadini, vanno rinnovati i linguaggi, i modi stessi della comunicazione.
Si abbia il coraggio di farlo, subito.
D’altra parte, lo dicono anche i numeri se si ha la voglia, e l’onestà intellettuale, di leggerli con attenzione. A livello regionale, il Partito Democratico precipita all’11,14%: in provincia dell’Aquila, scende addirittura ad un mestissimo 8,80%. Un tracollo senza fine. E’ vero, il Pd ha lasciato candidare alcuni suoi esponenti nelle liste civiche della coalizione: tuttavia, è altrettanto vero che i dem sono stati trainati dal voto ai singoli candidati, un voto ‘personale’ costruito e radicato nel tempo. Per essere chiari, in provincia dell’Aquila il Pd è stato trascinato da Pierpaolo Pietrucci - fuori dal Consiglio per qualche centinaio di voti, per una legge elettorale bislacca - e da Giuseppe Di Pangrazio che, probabilmente, avrebbero ottenuto le stesse preferenze se si fossero candidati sotto altri simboli; la stessa Patrizia Masciovecchio, che ha ottenuto un riscontro importante, si è affermata per motivi che niente hanno a che fare col Pd. E così accade nelle altre province abruzzesi. A dire che i dem non rappresentano più alcun progetto politico riconosciuto e capace di andare oltre i suoi candidati. Anzi, a volte il simbolo è persino una zavorra.
D’altra parte le liste civiche non hanno sfondato, non rappresentando, di nuovo, alcun progetto politico realmente civico, e riconosciuto. I voti sono arrivati dai sindaci del territorio, che hanno un rapporto quotidiano con i loro elettori per via ‘amministrativa’, e da chi, come Americo Di Benedetto per stare all’Aquila, ha un consenso personale costruito nel tempo e che passa, nel suo caso, anche dal riconoscimento di un gruppo locale, questo sì, che esiste, e che ha un suo profilo politico in città, poggiato sull'attività consiliare del gruppo del Passo Possibile.
Sta in questa stessa logica il dimezzamento dei voti patito dal Movimento 5 Stelle rispetto al 4 marzo scorso. Va detto che il voto delle regionali è diverso da quelle delle politiche, tuttavia il consenso dei pentastellati è, di per sé, strutturalmente d’opinione. Il nervosismo di Sara Marcozzi - imposta come candidata sebbene non avesse vinto le 'regionarie', per una sorta di familismo amorale che ha fatto presa anche sui Cinque stelle - sta a testimoniare che il Movimento si aspettava ben altro riscontro dalle urne: il risultato è persino peggiore, in termini percentuale, di quello ottenuto nel 2014. Il problema è che le cinque stelle del Movimento stavano lì a restituire un progetto politico che, negli anni, e soprattutto negli ultimi mesi di governo, è stato completamente sconfessato, coi ‘grillini’ fagocitati di fatto dalla Lega di Matteo Salvini che sta dettando la linea politica al Paese. Non è un caso che negli ultimi giorni, in piena campagna elettorale in Abruzzo, Luigi Di Maio abbia tentato di aprire un fronte con l’alleato sulla questione Tav. Non è bastato. E il rischio per il Movimento è di subire un altro tracollo in Sardegna. E’ evidente la necessità di cambiare rotta, con le Europee alle porte: il voto delle regionali, in questo senso, potrebbe segnare uno svincolo piuttosto pericoloso per il governo Conte.
D’altra parte, il voto dei pentastellati si sta ‘muovendo’ verso la Lega – in Abruzzo è andata così, sebbene un pacchetto consistente di preferenze sia stato intercettato dalla coalizione di Giovanni Legnini – che in Regione è arrivata al 27.53%. Un risultato clamoroso, se è vero che a giugno 2017 il Carroccio, alle elezioni dell’Aquila, aveva ottenuto il 7.5%, balzando poi al 14% alle politiche del 4 marzo scorso. Una crescita esponenziale che ha portato la Lega a sfiorare il 30%, vero e proprio traino della coalizione di centrodestra, con l’elezione di 10 consiglieri regionali.
Al contrario del Movimento 5 Stelle, e oltre le diverse posizioni politiche, in questo momento la Lega è l’unico partito in Italia che ha un progetto politico chiaro, radicale nelle proposte, appunto, che possono piacere o meno ma restituiscono un universo valoriale condiviso ai simpatizzanti che si sentono parte di una comunità politica. Così si genera entusiasmo, così si spiegano le piazze piene. Per dirne una: l’insistenza sull’emergenza migranti, creata ad arte oltre la logica dei fatti, serve proprio a questo. A fare il resto è la ‘Bestia’, di cui molto si è discusso in queste settimane. Salvini ha chiaro in mente il suo obiettivo: prendersi il centrodestra, dandogli una forte impronta sovranista – in questo senso, Fratelli d’Italia farà da spalla con un contenitore politico rinnovato, “sovranista e conservatore”, che Giorgia Meloni sta costruendo con Raffaele Fitto, e va letta così la candidatura di Guido Quintino Liris con FdI – mangiandosi buona parte della fu Forza Italia, scesa in Abruzzo sotto la soglia psicologica del 10%.
E’ la deriva cui assisteremo nei prossimi mesi: una destra sovranista e radicalizzata, con i moderati di centrodestra che dovranno guardare alla loro sinistra, laddove potrebbero incrociare un pezzo di PD, a valle di un congresso che, di certo, segnerà un punto di svolta per i dem, e i progressisti che, come detto, dovranno tentare di dar vita ad un nuovo, e rinnovato, progetto politico. Altrimenti, contrapporsi al vento della destra resterà a lungo un esercizio di stile fine a sé stesso.