Martedì, 13 Agosto 2019 20:58

Senato, stoppata la fuga in avanti del centrodestra: Conte a Palazzo Madama il 20 agosto. Bluff di Salvini: "Approviamo taglio dei parlamentari e subito al voto"

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La Lega non passa in Senato.

Palazzo Madama ha respinto a maggioranza la richiesta del centrodestra di anticipare a domani le comunicazioni in aula del presidente del Consiglio.

Giuseppe Conte si presenterà in Senato martedì 20 agosto alle 15, la data già proposta nella conferenza dei capigruppo da Pd e M5s; la conferenza dei capigruppo alla Camera, invece, ha calendarizzato la discussione sul taglio dei parlamentari per la mattina di giovedì 22 agosto: nel pomeriggio, invece, nall'aula di Montecitorio è atteso il premier.

Tuttavia, Conte - a seguito delle comunicazioni in Senato - dovrebbe rimettere il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica che, a quel punto, avvierà immediatamente le consultazioni.

La discussione in Senato è stata caratterizzata dall'intervento, contestatissimo, di Matteo Salvini che, seduto tra i banchi dei senatori e non tra quelli del governo, sebbene abbia dichiarato di non volersi dimettere e ritirare i ministri leghisti, ha provato a rompere la narrazione del Movimento 5 Stelle, aprendo all'approvazione in quarta ed ultima lettura del taglio dei parlamentari: "Raccolgo l'invito di Di Maio: la Lega voterà per anticipare il voto sul taglio dei parlamentari, 345 in meno la settimana prossima, e poi si va immediatamente a votare. Affare fatto, noi ci siamo".

Una mossa da campagna elettorale. 

Infatti, la riforma costituzionale non permetterebbe di votare subito, sebbene Salvini abbia ribadito che col taglio dei parlamentari si potrebbe andare alle urne entro ottobre: "non c'è nessun problema, lo dice l'articolo 4 della riforma stessa. Il taglio entra in vigore nella legislatura successiva", ha chiarito ai giornalisti; in sostanza, il vicepremier vorrebbe approvare il provvedimento, andare subito al voto e lasciare che sia il prossimo parlamento a completare l'iter. Ma ci sono fondati dubbi che non si possa procedere in questa direzione, stante l'articolo 138 della Costituzione che testualmente recita: Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

Sta di fatto che se Conte deciderà di dimettersi a seguito delle comunicazioni in Senato, la riforma non verrebbe discussa l'indomani alla Camera. 

Tant'è vero che il leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, ha giocato al rialzo: "Ho sentito dire dai leghisti, in un momento di euforia, che taglieranno anche gli stipendi dei parlamentari. E’ giusto, però i cittadini sappiano che una proposta in tal senso già c’era, è nostra e la Lega l’ha bloccata per un anno. Solo uno stupido però non cambia mai idea. Facciamolo subito, dunque: in ufficio di presidenza della Camera abbiamo ancora la maggioranza, non serve neanche convocare le Camere. Bastano un paio d’ore e buona volontà".

Schermaglie dialettiche, da giocarsi sui social a colpi di post.

In realtà, la crisi - di fatto - è nelle mani del Presidente della Repubblica che, guarda caso, ha già fatto sapere che non si può votare se si tagliano i parlamentari: "lo scioglimento delle Camere - ha chiarito - lederebbe il diritto dei parlamentari a chiedere il referendum per la riforma in vigore soltanto nel 2024".

Piuttosto, bisognerà capire se l'alternativa possibile al governo gialloverde che si è manifestata in Senato, per la prima volta, si farà maggioranza in pochi giorni.

La via è piuttosto impervia. Il Movimento 5 Stelle ha aperto all’ipotesi di una coalizione alternativa ponendo sul tavolo, però, una condizione: Luigi Di Maio, e così il fondatore del Movimento Beppe Grillo – tornato per indicare la linea politica – hanno chiarito che non intendono sedersi al tavolo con Matteo Renzi, aprendo, di fatto, ad una possibile trattativa col segretario dem Nicola Zingaretti.

Fiutando il momento giusto, una capacità che non è mai mancata all’ex Presidente del Consiglio, il senatore semplice Matteo Renzi, che semplice non è, controllando, di fatto, i gruppi parlamentari dei democratici, aveva aperto ad un governo della Repubblica, spiazzando Zingaretti e lasciando intendere di essere pronto a rompere con i dem (l’avrebbe fatta in autunno alla Leopolda, se non fosse scoppiata la crisi di ferragosto) facendo confluire i ‘suoi’ parlamentari sotto un’altra sigla, stante le titubanze mostrate dal segretario dem che, sull’incisività dei tempi, non può in alcun modo competere. In conferenza stampa, nel pomeriggio, Renzi ha ribadito la linea del dialogo facendo un passo indietro, però, rispetto all'ipotesi di una rottura. "Decide Zingaretti", ha dichiarato. 

la posizione di Zingaretti sta emergendo, seppur faticosamente: in sostanza, il segretario dem sarebbe disponibile a ragionare di un governo del presidente a patto che non si limiti ad approvare la legge di bilancio per accompagnare il paese alle urne in primavera ma si fondi, piuttosto, su un patto di legislatura, su un mandato chiaro su alcuni punti programmatici per arrivare al 2023.

A far da pontiere, in queste ore, è Dario Franceschini che ha avviato una interlocuzione col presidente della Camera, Roberto Fico. E non è un caso: anche i dem pongono delle condizioni e, oltre ad indicare la strada di un governo di lungo respiro, hanno chiarito che non voteranno la fiducia ad un esecutivo fatto di ministri che abbiano condiviso le politiche della Lega di Salvini.

Un bel problema, se si considera che Luigi Di Maio, leader politico del Movimento fino a prova contraria, è vice presidente del Consiglio. E poi, sulla ‘trattativa’ si sta consumando l’ennesimo, forse l’ultimo, braccio di ferro tra Renzi e Zingaretti: l'eventuale maggioranza alternativa, però, non può fondarsi sull’esclusione, bensì sulla maggiore inclusione possibile; in sostanza, Renzi e Zingaretti debbono starci, e così Di Maio.

Ecco il motivo per cui la strada di un governo tecnico è davvero strettissima.

Al momento, nessun vuol fare davvero il primo passo: è chiaro che se la proposta di alleanza fosse arrivata da Zingaretti, e se i gruppi parlamentari dem fossero in mano al segretario, le cose sarebbero più semplici; Renzi l’ha capito prima degli altri, e così si è rimesso al centro della vita politica. Le mazze sono in mano a Franceschini e Fico: se sapranno ricomporre, trovare una quadra, allora si potrebbe davvero andare ad un governo del presidente, o della repubblica se vi piace di più. Il tempo è tiranno, però.

Tra i fedelissimi di Di Maio si respira pessimismo: “si vota il 27 ottobre”, hanno sussurrato alcuni esponenti pentastellati ai giornalisti appostati da giorni sotto i palazzi romani.

Ultima modifica il Mercoledì, 14 Agosto 2019 09:40

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