Domenica, 22 Marzo 2020 17:53

Coronavirus e nuova centralità della casa

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Che questo virus resti un pericolo per anni o meno, come in una guerra ci sta spingendo verso nuovi usi, costumi e avanzamenti tecnologici che in qualche modo rimarranno nelle nostre vite di tutti i giorni. Tra queste nuove abitudini, la più visibile ai più (nel vero senso della parola) è senz'altro quella delle videochiamate, del telelavoro, dell'insegnamento a distanza.

La casa è luogo fisicamente più intimo (nessuno può più accedervi se non il ristretto nucleo familiare) e allo stesso tempo mediaticamente più pubblico, di rappresentanza (non viene più vista solo da parenti e amici ma anche dai compagni di classe, dalle maestre, dai contatti lavorativi fino a piombare persino in televisione come nel caso dei tanti esperti intervistati in questi giorni).

Lo "smart" a cui, come italiani, eravamo tra i più refrattari entra improvvisamente nelle nostre vite e nelle nostre case, va progressivamente accompagnando ogni nostra attività quotidiana e con essa muta il senso ai nostri stessi luoghi fai vita.

D'improvviso ci scopriamo capaci di fare molte più cose negli stessi spazi, con inevitabili conseguenze di natura economica (di spazio, di denaro, di tempo, di energia, di impatto ambientale, ecc.).

Con ciò potremmo essere di fronte a una forte quanto velocissima ridefinizione dei valori immobiliari.

Lasciando da parte le destinazioni commerciali, i cui risvolti anche forti andranno valutati con maggior tempo e attenzione, e quelle manifatturiere che restano marginali rispetto alla dinamica, è possibile ipotizzare una crescita di valore per il residenziale e una conseguente riduzione per le destinazioni a terziario (uffici). In altre parole da oggi in poi potremmo orientarci maggiormente verso case più grandi/più flessibili e tecnologicamente più attrezzate e di uffici sempre più piccoli e meno ricercati.

Al netto delle mere considerazioni economiche e come contraltare ai suddetti processi via via più immateriali, qualitativamente questa dinamica potrebbe generare mutamenti fisici dalla scala micro a quella macro, dal disegno del tavolo del soggiorno alla pianificazione delle città passando proprio per la concezione delle nostre case.

Non è nuovo quello che stiamo dicendo. E' nuovo quello che si stia (finalmente?) verificando nelle parti anche più arretrate del mondo.

Per raccontare di quanto non sia nuova questa ibridazione casa-lavoro, basti per tutte la casa Schröder di Gerrit Rietveld realizzata a Utrecht tra il 1924 e il 1925. Funzionalmente questa casa si caratterizza per la sua flessibilità funzionale ed è considerata da molti la pietra miliare di svolta dall'architettura classica a quella moderna. Visitando questa casa si può apprezzare, meglio di quanto non possano le immagini, come tutto sia pensato al suo interno per rispondere a diversi usi negli stessi spazi che variano nel tempo, sia come dimensione che come utilizzo. Una pratica che in cento anni si è sviluppata, diventando di prassi in qualsiasi progetto di architettura residenziale d'interni che presenti una qualche limitazione di spazi rispetto ai bisogni dei futuri occupanti.

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[img. "Casa Schröder-Schröder - Gerrit Rietveld, Utrecht, 1924]

Ciò permette una prima considerazione, con riferimento agli aggettivi usati poco sopra per descrivere il nuovo ruolo che intravediamo per la casa: grande/flessibile alternativamente.

La domanda potrebbe attestarsi verso case innanzitutto più grandi, in modo da potervi adattare sia gli spazi per la famiglia che quelli per il lavoro, evitando per quanto possibile di farle entrare in conflitto. Laddove le maggiori dimensioni non fossero accessibili, però, è probabile che si vada a ripiegare verso una flessibilità degli stessi spazi a disposizione, contando sull'assenza di qualche componente della famiglia nel corso della giornata (ad esempio i figli a scuola) per evitare i conflitti già detti. In entrambi i casi si produrrebbe un aumento di valore (economico e urbano) rispetto al recente passato: nella prima ipotesi perché le case più ampie sarebbero le più richieste; nella seconda ipotesi perché le case flessibili permetterebbero più usi nella stessa unità di spazio rispetto alle abitazioni normali.

Questo approccio, come sappiamo, è già molto presente nel settore del design per l'arredamento d'interni. Sono molti gli esempi di arredi trasformabili e sempre di più lo sarebbero, in accoglimento dei crescenti bisogni di flessibilità delle case che stiamo ipotizzando.

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[img. Kai Table - Naoki Hirakoso & Takamitsu Kitahara, 2001]

Dal tavolo alla città cerchiamo di capire, infine, come questo processo potrebbe finire per condizionare la "crescita" di interi agglomerati urbani. Ebbene, proprio nella direzione opposta, ovvero della decrescita. Se fosse vero, infatti, che si ricercheranno case più grandi, sarebbe anche vero che queste ospiterebbero più usi, con una conseguente riduzione del fabbisogno di volumi edificati e di suolo.

In questo discorso, come al solito, sarebbe altresì possibile immaginare varie forme di ibridazione tra i diversi elementi del discorso fino, per esempio, a un ritorno verso le cosiddette architetture-città, ovvero grandi condomìni (in chiave sostenibile e contemporanea) con al loro interno servizi di condivisione tali da ridurre le necessità di spostamento degli occupanti. Ma di questo, magari, parleremo un'altra volta.

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