Giovedì, 03 Aprile 2014 16:13

Addio alle vecchie Province: è legge la riforma Delrio

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La Camera ha convertito definitivamente in legge il cosiddetto “Ddl Delrio – dal nome dell’allora ministro per gli Affari regionali e attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Delrio – sulla riforma delle Province, con 260 voti favorevoli, 158 contrari e 7 astenuti (e ben 204 assenti). Il Ddl era stato presentato nell’agosto del 2013, approvato il 21 dicembre alla Camera (quando il presidente del Consiglio era Enrico Letta) con i voti favorevoli di PD, Scelta Civica e NCD e lo scorso 26 marzo era stato approvato, con qualche difficoltà e modifica, anche dal Senato. Mercoledì 3 aprile erano state respinte le pregiudiziali di costituzionalità presentate da Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega.

A favore del ddl Delrio hanno votato Pd, Nuovo Centrodestra, Scelta Civica e Popolari per l'Italia. Contro hanno votato FI, M5S, Lega, Sel e Fratelli d'Italia.

Si ridisegnano così confini e competenze dell'amministrazione locale in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione, l'ultimo passo prima dell'abolizione delle province che intanto diventano enti territoriali di area vasta, di secondo grado. Dal 2015, poi, le città metropolitane subentreranno alle province omonime. Vista l’approvazione definitiva del disegno di legge, le elezioni provinciali che si sarebbero dovute svolgere a maggio in 52 province non si svolgeranno.

Il disegno di legge, in sostanza, regola tre aspetti pratici dell’abolizione delle province.

Il primo stabilisce che i consigli e le giunte provinciali saranno abolite e sostituite da assemblee di sindaci del territorio della vecchia provincia. In altre parole, non ci saranno più elezioni, presidenti di provincia, giunte e assemblee provinciali: l’assemblea dei sindaci sarà costituita da tutti i sindaci dei comuni con più di 15 mila abitanti e dai presidenti delle unioni di comuni con più di 10 mila abitanti. L’assemblea eleggerà un presidente con un sistema di voto ponderato (ogni sindaco conterà in proporzione al numero di abitanti del suo comune). Le funzioni di questa nuova assemblea saranno essenzialmente di pianificazione in aree per cui in precedenza erano competenti le province, come l’edilizia scolastica e le strade. Gli incarichi nell’assemblea provinciale non saranno remunerati.

Gli altri due aspetti regolati dalla legge sono l’istituzione delle città metropolitane e nuove regole per la fusione dei comuni. Quest’ultimo punto serve in sostanza a rendere più facile per i comuni riunirsi e quindi partecipare all’assemblea provinciale. Il primo punto invece è più importante. Le città metropolitane si sostituiranno alle province a Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (Roma capitale, invece, avrà uno status ancora più particolare). A queste si aggiungono le città metropolitane istituite conformemente alla loro autonomia speciale dalle regioni Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna ossia Trieste, Palermo, Catania, Messina, Cagliari.

In queste città, non ci sarà un’assemblea provinciale formata dai sindaci e nemmeno la vecchia provincia. Il sindaco della città metropolitana sarà automaticamente il sindaco della vecchia città capoluogo di provincia. Il sindaco metropolitano sarà affiancato da un consiglio metropolitano – formato da sindaci del territorio eletti dagli altri sindaci – e da una conferenza metropolitana – formata nello stesso modo dell’assemblea provinciale.

La domanda è: serve davvero abolire le province? A dare una risposta ci ha provato Zenone Sovilla, per Altreconomia. Ha fatto i conti in tasca alla riforma. E ha tratto spunti interessanti.

"Gli abolizionisti stanno passando a Comuni e Regioni competenze (e patrimoni) provinciali, per 'razionalizzare' le funzioni amministrative locali e ridurre il personale politico: promettono, per le prime, due miliardi di euro di risparmi l’anno, per il secondo 110 milioni. Ma da tempo è guerra di cifre: c’è chi sostiene che in realtà la riforma moltiplicherà i costi, per il venir meno delle economie di scala nei servizi e perché il personale passerà a enti che applicano contratti più onerosi rispetto alle Province. Inoltre, uno su cinque dei 57 mila dipendenti probabilmente finirà ricollocato anche in termini di mansioni e luogo di lavoro, con la necessità di cambiare città.

Nel mese di ottobre 2013, la Cgia di Mestre ha diffuso una stima secondo la quale la soppressione delle 107 Province a statuto ordinario farà risparmiare solo il 3,9% (510 milioni di euro) del loro costo annuo complessivo di 13 miliardi di euro. Gran parte della spesa, infatti, va in servizi da preservare, quali la gestione di 125mila chilometri di strade (circa l’80% della rete nazionale), 5mila edifici scolastici (medie inferiori e superiori), 2.700 palestre, 600 centri per l’impiego, cui si aggiungono trasporto locale, difesa del suolo, ciclo dei rifiuti, pianificazione territoriale di area vasta, tutela ambientale. Quanto ai costi meramente politici, l’agguerrita Unione delle Province italiane (Upi) contesta i 110 milioni ipotizzati dal governo: era così prima della cura dimagrante del 2011, che ha ridotto anche il numero degli eletti. Oggi la cifra corretta si ferma a 32 milioni.

Uno dei temi roventi della riforma, è la soppressione del diritto di voto per i vertici delle Province. Fra i critici ci sono numerosi giuristi, come Piero Ciarlo, che non ha esitato a definire la legge "un incomprensibile pasticcio anticostituzionale". Il nodo dell’elettività è lo specchio di un feroce decisionismo politico contro le Province, che spinge molti detrattori a parlare di restaurazione centralista e di un profilo autoritario, incurante della volontà dei territori coinvolti e dunque del principio di sussidiarietà. Lo stesso presidente dell’Upi e della Provincia di Torino, Antonio Saitta (Pd), contrapponendosi a Piero Fassino - suo compagno di partito e sindaco del capoluogo piemontese -, ha denunciato in un’intervista con Altreconomia un "disegno incostituzionale che abbassa per legge il livello di democrazia nel Paese". 

In molti, avevano per questo proposto di riprendere il cammino della riforma elaborata dal governo Monti e franata con la fine anticipata della legislatura. All’epoca erano pronti una serie di accorpamenti delle Province piccole, salvo le due interamente alpine di Belluno e Sondrio. La prospettiva individuata, peraltro secondo criteri opinabili (almeno 350mila abitanti e 2.500 chilometri di estensione), avrebbe innescato un’inversione di tendenza toccando forse il casus belli di questa vicenda: la proliferazione che ha visto il numero delle province salire dalle 94 del 1970 alle 107 attuali. Con la riforma voluta da Delrio, invece, anziché ripensare gli enti intermedi cui si potrebbero trasferire maggiori funzioni in una logica di economie di scala (c’è anche chi suggerisce di accorparvi Camere di commercio e prefetture), si preparano 700 unioni comunali, “con una frammentazione gestionale -dice l’Upi- traducibile in perdite di efficienza e maggiori spese di 645 milioni nell’edilizia scolastica e in quasi un miliardo e mezzo negli altri settori”.

A suffragare questo j’accuse è arrivato uno studio del Censis (disponibile sul sito www.censis.it), che difende su tutta la linea la dimensione territoriale provinciale e suggerisce di rafforzarla per rispondere alle esigenze dei territori. L’indagine conferma i fallimenti anche economici cui nel Paese dei campanili sarebbe destinato un sistema iper parcellizzato: 1.484 Comuni dovrebbero gestire mediamente cinque scuole ciascuno in più, coordinandosi con quelli vicini per ripartire gli oneri. Anche dall’analisi dei distretti produttivi e degli ambiti occupazionali emerge una coerenza con gli attuali confini provinciali, nel 75% dei casi per esempio vi è connessione tra residenza e attività lavorativa. Insomma, vien da pensare che non sia un caso se questi enti nascono in gran parte già con l’unità d’Italia: “Le attuali circoscrizioni provinciali contengono all’interno dei propri perimetri tutti i principali processi socio-economici di area vasta. Gli enti che le governano sono dunque il livello istituzionale più adeguato per questo scopo”, osserva il presidente del Censis, Giuseppe De Rita.

Sul ruolo strategico e democratico di quest’ente intermedio il noto urbanista Edoardo Salzano, sul suo blog Eddyburg (www.eddyburg.it), ha ricordato che lo strumento di pianificazione territoriale di area vasta colma un vuoto e storicamente rappresenta il tentativo di dare risposta all’evoluzione reale vissuta dal Paese nel secondo Novecento. Lo studioso - che è stato preside della Facoltà di Pianificazione del territorio dell’IUAV di Venezia - indica fra le materie in cui è essenziale il ruolo delle Province (elette dai cittadini) il contenimento del consumo di suolo, la politica della casa, la promozione dei trasporti collettivi, la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

Lo stesso Saitta menziona casi in cui è stata proprio la Provincia a tutelare i territori ostacolando progetti di cementificazione speculativa assecondati dalle Regioni o dai Comuni. E proprio a questi due enti il presidente dell’Upi attribuisce la volontà di sbarazzarsi del brutto anatroccolo provinciale anche per appropriarsi del suo ingente patrimonio (immobiliare e non) da utilizzare magari per aggiustare bilanci in profondo rosso. Un altro capitolo da approfondire sono i servizi locali: con il venir meno delle Province potrebbero più facilmente aprirsi spiragli per nuove forme di privatizzazione.

Quanto alla spesa pubblica, Saitta spiega un’ovvietà. I veri snodi in cui intervenire sono lo Stato e le Regioni: “Negli ultimi dodici anni -osserva - le uscite dell’amministrazione centrale sono cresciute di cento miliardi, quelle regionali di quaranta. Mentre Province e Comuni subivano tagli anche sui servizi essenziali, le Regioni (responsabili del 20% della spesa pubblica nazionale) creavano una miriade di enti e agenzie strumentali: oggi sono circa 7.800 e costano 15 miliardi di euro di personale e due miliardi e mezzo per i cda. Altro che la propaganda sulle Province, che rappresentano appena l’1,3% del totale delle uscite”.

 

Ultima modifica il Giovedì, 03 Aprile 2014 16:46

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