La peggiore crisi del dopoguerra, sanitaria certo ma anche economica e sociale, ha messo in luce le debolezze che, in questi anni, hanno fiaccato il nostro paese, lentamente, passo dopo passo, con le contraddizioni latenti che sono esplose in modo fragoroso.
All'improvviso, la pandemia ha mostrato gli effetti di anni e anni di tagli alla sanità, col depotenziamento costante della medicina territoriale per 'coprire' le voragini nei bilanci delle aziende sanitarie, gestite non da professionisti riconosciuti e con competenze specifiche ma da nominati della politica; l'emergenza sanitaria ha evidenziato le storture della riforma del titolo V della Costituzione che, di fatto, ha scritto la parola fine sul servizio sanitario nazionale, affidato alle Regioni con i risultati che vediamo oggi, plasticamente, ma che arrivano a valle di anni contrassegnati ovunque, da nord a sud, da scandali, arresti, commissariamenti e piani di rientro 'lacrime e sangue' sulla salute dei cittadini. Anche in Abruzzo, come noto.
Ma l'epidemia da covid-19 ha messo in luce anche il dramma, troppo spesso sottaciuto, del progressivo smantellamento del welfare sociale, della eccessiva precarizzazione del lavoro, di un sistema economico sbilanciato che ha allargato la forbice sociale aumentando le disuguaglianze che, oggi, preoccupano per la tenuta sociale del paese.
Problemi mai affrontati, in questi anni; ci si è dedicati, piuttosto, a battaglie populiste che hanno depotenziato l'architettura istituzionale del paese: si pensi alla riforma Delrio, alla soppressione sciagurata delle province; si torni con la memoria al taglio del finanziamento pubblico ai partiti che, da un lato, ha fatto proliferare un sottobosco di fondazioni, comitati e associazioni nient'affatto trasparenti per sostenere le carriere di questo o quel politico, dall'altro ha fatto implodere i partiti intesi, nell'accezione del '900, come scuole di formazione politica.
Di nuovo, tocchiamo ora con mano i risultati: una classe dirigente inadeguata si trova ad affrontare la peggiore delle crisi, dal governo in giù e fino agli Enti locali.
Il presidente Giuseppe Conte e i suoi ministri, in questi mesi, hanno smarrito la rotta: si è perso tempo prezioso per organizzarsi in modo da rispondere alla seconda ondata che, a differenza della prima, era ampiamente annunciata. La struttura commissariale ha sostanzialmente fallito: si era detto che il paese doveva essere messo nelle condizioni di convivere con il virus, evidentemente non è andata così. Ed oggi, l'esecutivo è spaccato tra chi vorrebbe inasprire le misure restrittive fino ad un vero e proprio lockdown e chi vorrebbe scansarle, o almeno non dichiararle esplicitamente. Non è un mistero che Conte, stavolta, vorrebbe evitare di firmare un altro dpmc, e la strada potrebbe essere quella di rendere, di fatto, tutte le Regioni rosse o arancioni.
Per non parlare delle forze di opposizione, in perenne contrapposizione per motivi squisitamente politici, capaci di dire tutto e il contrario di tutto pur di strappare qualche like sui social: in Portogallo l'opposizione di centrodestra, col crescere dei contagi, si è messa a totale disposizione della maggioranza. Oggi, quel paese è un modello in Europa per la gestione della pandemia.
In Italia, invece, si provano a 'scaricare' le responsabilità, in un gioco di contrapposizioni tra Governo, opposizioni e Regioni che, d'altra parte, hanno ampia autonomia e pure non l'hanno saputa utilizzare, non tutte almeno: è vero, i poteri commissariali in ambito sanitario sono arrivati tardi, ma i fondi c'erano per mettere in campo interventi concreti che sono mancati, sul fronte sanitario e così su quello del trasporto pubblico locale. Ed oggi prendersela con l'esecutivo è esercizio piuttosto stucchevole.
Vale lo stesso per i Comuni: L'Aquila, ieri, ha raggiunto la quota di 100 nuovi casi in un giorno, dal 1 novembre sono stati quasi 700 in città, un numero impressionante se rapportato alla popolazione residente o domiciliata nel comune; eppure, se durante la prima fase si erano animate campagne social, canali web e siti internet, dirette video quotidiane da Palazzo Fibbioni, se durante l'estate si era insistito sul concetto di città 'covid free', sull'urgenza di organizzare eventi, oggi mancano indicazioni chiare, parole ferme, decisioni drastiche.
Dal Governo e fino ai Comuni, l'emergenza non è gestita, piuttosto assecondata, rincorsa, subita.
Col risultato che la crisi è sulle spalle del personale sanitario oramai allo stremo, nel caso aquilano mal gestito da un'azienda sanitaria locale, la Asl1, i cui vertici hanno mostrato tutti i propri limiti nell'affrontare la pandemia: e di nuovo, bisognerà che ne renda conto chi ha indicato i manager dell'azienda, per ragioni politiche come accade ovunque, in un paese che alla trasparenza del merito, all'esperienza e alle competenze ha anteposto i 'cerchi magici' del potere.
Ed ora, non si può che tentare di correre ai ripari, di fermare l'avanzata esponenziale del virus. Ripartendo dai territori, e dalle scelte.
Stando all'Aquila, è chiaro che la città sia da considerarsi 'zona rossa', e i cittadini così dovrebbero viverla, limitando al massimo gli spostamenti, anche durante il giorno, ed evitando assembramenti. Si parla di lockdown, si invoca da più parti la chiusura delle scuole: ora, detto che chiudere le porte delle aule dovrebbe essere vissuto come il peggiore dei fallimenti della gestione politica dell'emergenza, non è affatto scontato che ciò basterà.
Lo ha detto chiaramente Massimo Cialente, lasciando da parte la politica e indossando il camice da medico pneumologo: è necessario recuperare il tracciamento, ed è urgente fare in modo che in città si possano processare almeno 1.500, 2.000 tamponi al giorno, con i risultati che dovrebbero arrivare in 24, 36 ore. Non c'è altro tempo da perdere. "Ci sono 9mila giovani medici italiani, laureati quest'anno, che non rientreranno nelle scuole di specializzazione; ci sono altri giovani che sono specializzandi. Non mi interessa il tipo di contratto: prendeteli e fateli lavorare al tracciamento"; altrimenti, ha aggiunto Cialente, "se non si riesce a fare altro, prendete noi medici in pensione: metteteci in un call center e fateci fare le telefonate, gratuitamente. Per un periodo, dobbiamo avere almeno 60 persone a ricostruire le catene dei contagi".
"A mio parere, si sta configurando un reato", ha ribadito Cialente con un affondo durissimo.
E poi c'è la questione tamponi: "Chiedo disperatamente di aumentare la capacità di processamento; dobbiamo sapere se l'Università può darci almeno 200 tamponi al giorno, dobbiamo andare da Dante Labs a chiedergli quanti test riesce a fare in un giorno, capire quanti ne può processare lo Zooprofilattico di Teramo e quanti l'Ospedale di Pescara, restituendoli in tempi accettabili e magari senza perderli. E poi organizzarci di conseguenza". Bisogna arrivare, come detto, almeno a 1.500-2.000 tamponi al giorno.
Intanto, vanno rafforzate le Usca, le unità speciali di continuità assistenziale che sono davvero poche, sul territorio provinciale, e non riescono a gestire le diverse richieste di assistenza domiciliare considerato pure che alcuni medici, nel frattempo, si sono contagiati.
Agire, e agire in fretta: questo si chiede, oggi, alla classe dirigente cittadina e regionale. Poi, ci sarà tempo per valutarne l'operato.