La storia è nota.
Alla fine degli anni Sessanta, il board dell’NCAA, il campionato di basket universitario americano, decise di bandire la schiacciata per limitare lo strapotere fisico di un giocatore nero alto 2 metri e 18 che militava nelle fila di UCLA alla corte di coach John Wooden, uno dei più grandi allenatori della storia della pallacanestro.
Quel nero, che era nato a Harlem, New York, da una famiglia cattolica – il padre era un poliziotto, uno dei primi afroamericani ad arruolarsi nel NYPD, e la madre un’impiegata - si chiamava, all’anagrafe, Ferdinand Lewis Alcindor ma da quando si era convertito all’Islam, sulle orme di Mohammed Alì e Malcolm X, aveva abbandonato il suo nome di battesimo americano ed era rinato come Kareem Abdul Jabbar, “nobile servo di dio”.
Per aggirare il divieto voluto dalla federazione per arginarne la forza sotto canestro, racconta la vulgata, Jabbar inventò il cosidetto “gancio cielo”, uno dei gesti più belli e tecnici che si siano mai visti fare su un campo da basket. Un tiro immarcabile, divenuto poi il suo marchio di fabbrica.
“E’ vero, cominciai a usarlo dopo che mi vietarono di schiacciare” ha raccontato Jabbar a Pescara, dove è stato ospite della sesta edizione dell’Oscar Pomilio Forum “ma iniziai a provarlo molti anni prima, quando avevo 12 anni”.
Lo sky-hook, in altre parole, fu certamente un modo geniale di aggirare un limite, trovando un’opportunità in una costrizione e trasformando un’apparente debolezza in un punto di forza; ma non nacque dal nulla. Jabbar lo aveva provato e riprovato fin da ragazzino, perfezionandolo e migliorandolo, fino a che le circostanze non lo costrinsero a farne il suo principale movimento offensivo.
Per diventare grandi, sembra voler suggerire l’ex centro dei Los Angeles Lakers, nel basket come in qualsiasi altra disciplina sportiva, il talento, inteso come dote naturale, innata, non basta: servono anche impegno, allenamento, costanza, autocontrollo, disciplina. Il talento non è una risorsa eterna: va coltivato perché non appassisca e non vada perso, specie quando arriva il successo con il suo carico di distrazioni e tentazioni.
Il nome di Jabbar è legato soprattutto ai Lakers dello show time di Magic Johnson, una delle formazioni più forti e spettacolari di tutti i tempi, che dominò, insieme ai Boston Celtics di Larry Bird, il basket americano negli anni Ottanta e lo trasformò in un fenomeno planetario.
Di quella squadra Jabbar fu il leader schivo e silenzioso. Tanto Magic era estroverso e sorridente, la superstar, l’uomo da copertina, quanto Kareem era distaccato e apparentemente freddo. Ma era lui, senza discussioni, il capitano, il punto di riferimento, la roccia a cui i compagni si aggrappavano nei momenti di difficoltà. E non è un caso che quei Lakers smisero di vincere proprio quando Jabbar appese le scarpe al chiodo, nel 1989, dopo le finals perse contro i Detroit Pistons di Isiah Thomas e al termine una carriera ventennale, chiusa con il record di punti segnati nell’ NBA: 38 mila 387. Record tutt’ora imbattuto: Kobe Bryant e Michael Jordan, per dire, unanimemente considerati due dei più forti giocatori di tutti i tempi, si sono fermati, rispettivamente, al terzo e quarto posto, con 33 mila 643 e 32 mila 292 punti.
Campione in campo ma anche fuori, membro tra i più autorevoli e ascoltati della comunità afroamericana, Jabbar è diventato, dopo il ritiro, uno scrittore e un intellettuale prolifico ed eclettico, autore di saggi storici, libri per bambini, racconti, articoli ed editoriali per le più prestigiose testate giornalistiche americane.
Una seconda vita dove il basket è diventato una componente in fondo marginale. La sua autobiografia, Sulle spalle dei giganti, è appena uscita negli States e a settembre sarà pubblicata anche in Italia dall’editore Add. Ma Jabbar ha in cantiere anche un altro libro, che racconterà la storia del suo personale rapporto con coach Wooden, l’allenatore di quella formidabile squadra di UCLA che dal 1967 al 1969, per tutto il periodo di permanenza di Jabbar, su 90 incontri disputati ne perse solo 2.
Al Forum Pomilio, in un teatro Aurum pieno di appassionati, tra cui tanti giovani, Jabbar ha parlato del “frattempo”, di quello spazio che divide il dire dal fare, il concepimento di un’idea dalla sua realizzazione, la potenza dall’atto.
Malgrado l’età (compirà 70 anni il prossimo 16 aprile) e un fisico che la leucemia (sconfitta tre anni fa) e tre bypass hanno provato e indebolito ma non piegato – la magrezza, unita all’imponente stazza e a un contegno serafico, gli dà anzi un’aura quasi ieratica – Jabbar ha risposto alle domande del pubblico, parlando sì di pallacanestro ma anche di tematiche sociali e politiche, come la condizione attuale degli afroamericani (“La presidenza Obama ha fatto fare un grande passo in avanti ma i neri hanno ancora molta strada da percorrere: devono impegnarsi e partecipare di più ai processi politici”), il momento storico che stanno vivendo gli Stati Uniti ("Il presidente Trump ha condotto una campagna elettorale facendo leva sulla paura, ripetendo il suo slogan 'Make America Great again', ma l'America non ha mai cessato di essere grande. Io continuo a guardare avanti perché voglio che l'America sia grande"), la convivenza tra le religioni (“Tutte le religioni, Islam, Ebraismo, Cristianesimo, Buddismo, insegnano ad amare e ad avere rispetto dei propri simili, le violenze sono commesse da chi le strumentalizza”).
Quella di Jabbar è stata una carriera costellata di successi – 6 titoli NBA e 3 NCAA vinti, 6 volte miglior giocatore della regular season e 2 volte delle finali – e una vita vissuta senza risparmiarsi, facendo scelte anche difficili – come la conversione all’Islam, maturata in un’epoca in cui essere neri e musulmani negli Usa voleva dire essere due volte discriminati.
“Non ho rimpianti” dice oggi Jabbar e c’è da credergli, anche se forse un piccolo vuoto in una bacheca altrimenti piena di trofei e riconoscimenti forse c'è ed è la medaglia olimpica.
Nel 1968 Jabbar era stato inserito nella nazionale americana di basket che avrebbe dovuto partecipare ai giochi di Città del Messico ma all’ultimo decise di non partire e di boicottare le olimpiadi in segno di protesta contro le discriminazioni razziali di cui erano vittime gli afroamericani. Una scelta che gli precluse la possibilità di vincere un oro, come invece accadde a Jordan, Magic e Bird a Barcellona 24 anni dopo. A proposito, secondo Jabbar quella del 1992 non fu la nazionale americana di pallacanestro più forte di tutti i tempi. Ci fu un’altra squadra forte tanto quanto quella, un dream team prima del Dream Team: la nazionale dei giochi di Roma del 1960, quella con Walt Bellamy, Jerry Lucas, Jerry West e Oscar Robertson.