Mercoledì, 12 Dicembre 2018 14:14

Produci-consuma-esibisciti-crepa: l’essere non è contemplato

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Ogni risultato è il risultato di un processo. Questo assioma posto a fondamento di una teoria deduttiva vale in tutti i contesti: politici, educativi, sportivi, sociali ed economici. Se poi riteniamo di vivere in un unus mundus dove tutto si tiene e - in un meccanismo circolare - si autoalimenta, diviene più semplice trovare la spiegazione a tanti accadimenti.

Il Rapporto Censis ha rilevato una società dominata dalla paura e da un sentimento che lo stesso istituto ha definito di “sovranismo psichico”. Su questo giornale avevamo scritto, ad ottobre, della solitudine e di come rappresenti oramai un tratto caratterizzante le nostre società, tanto che in Inghilterra è stato creato il Ministero per la solitudine, anche se, in quasi un anno di lavoro, come rivela Repubblica dello scorso 3 dicembre, l’inedito dicastero ha semplicemente emanato una sorta di decalogo di consigli pratici contro la solitudine: riprendere un vecchio hobby, darsi al giardinaggio, iscriversi a una palestra, partecipare a un club del libro o a un cineforum, fare volontariato, frequentare la biblioteca di quartiere o centri sociali, indicando alcune azioni prioritarie per il 2019, come l'istituzione di consultori per la solitudine, visite a domicilio di psicologi e seminari.

Paura e solitudine hanno tra loro uno stretto rapporto che non è necessario spiegare e, prima del Censis, tanti studiosi, più o meno noti, hanno sottolineato come una società frammentata, priva di strutture solide e punti di riferimento forti e minimamente condivisi - la celebre società liquida di Baumann - sia esposta a sentimenti di paura, ansia e angoscia. Lo stesso Baumann descrisse come l’attuale costruzione delle città produce, di per sé, sentimenti di spaesamento e di estraniamento e anche la campagna risente dei modelli di costruzione urbana, dove le differenze di cultura si annullano e gli stili di vita si omologano.

Alla base di queste profonde trasformazioni vi è sicuramente il trionfo della globalizzazione capitalistica, di una società fondata su alcune idee dominanti come produttivismo e accumulazione.

Antonio Gramsci, lettore magistrale di Marx, sapeva che le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti e che per trasformare la società era necessario avviare un processo di egemonia culturale; questo è accaduto. Il consumismo ha provocato una trasformazione antropologica che neanche il fascismo, con la sua violenza, come ci ricordava Pasolini, era riuscito a realizzare. La fine dell’URSS, che ha spazzato via anche l’idea di un’alternativa al capitalismo, ha fatto il resto. Le nostre società sono fondate sull’accumulazione di denaro che serve ad acquistare oggetti da mostrare, al di là del loro valore d’uso: l’oggetto mostrato dà valore sociale. I soldi servono ad acquisire potere in una società dove tutto si vende e si compra, è il denaro la chiave di tutto, l’organizzatore di senso, non la conoscenza, il sapere, la morale.

I più giovani crescono in una società dove le idee dominanti sono queste: accumulare, apparire, competere, vincere.

Nella pratica clinica ho visto negli anni moltissimi adolescenti la cui posizione può sinteticamente riassumersi su tre dimensioni: complicati rapporti genitoriali, desiderio di imporsi sugli altri - a volte come compensazione delle proprie fragilità - attraverso oggetti e soldi, completa estraneità dal proprio mondo affettivo ed emotivo. Umberto Galimberti ha approfondito questo tema nel saggio “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”. Nella mia attività didattica, invece, ascolto continuamente appelli di colleghi docenti rivolti agli allievi a competere, sempre e comunque. “Il tuo vicino è il tuo nemico” ripete continuamente un professore di psicologia (!), devi importi innanzitutto su di lui! Solo competere, sempre competere, non vi è traccia di un valore importante come la cooperazione, la solidarietà, l’idea che insieme si cresce e si migliora.

Poi improvvisamente, sempre a fronte di qualche tragedia, scopriamo la povertà di valori della nostra società e che le giovani generazioni sono immerse in un eterno presente, spaventate dal futuro. Benessere e a volte opulenza in una società priva di cultura generano accidia.

Angelo Rizzoli, imprenditore, produttore cinematografico e fondatore della Rizzoli Editore, nato orfano di padre in povertà, poco prima di morire nel 1970 dichiarò, quasi scusandosi, che non aveva studiato ma che comunque aveva dato alla società, all’umanità, un grande apporto, contribuendo alla diffusione del sapere, non menzionò come merito l’enorme patrimonio economico accumulato. Solo qualche decennio più tardi, sempre a Milano, apparve il cavalier Silvio Berlusconi che annoverava e annovera tra i suoi meriti esclusivamente quelli patrimoniali, rimandando costantemente un profondo disprezzo per la cultura che rende noiosi e troppo simili a quei professoroni incattiviti in quanto invidiosi dei suoi successi economici. Berlusconi più di tutti ha mostrato come con il denaro si possa possedere un Paese - calciatori, veline, tv, giornali, Parlamento - e completare la sua trasformazione antropologica.

La de-culturalizzazione è senza dubbio un fenomeno che ha investito il nostro Paese, imponendosi prepotentemente. Il sapere e la conoscenza non sono più considerati né come strumento di affermazione sociale né come strumento di realizzazione personale. L’affermazione sociale e la realizzazione personale nella società iper-moderna passano per altri canali, l’apparire e il possedere innanzitutto, da qui la constatazione quotidiana che vede uomini e donne volgari e ignoranti, orgogliosi di mostrare ignoranza e volgarità, amministrare un enorme potere e ricevere profonda ammirazione.

Rossana Rossanda tornata dalla Francia dopo quindici anni ha commentato così la visione della televisione italiana: “donne seminude e uomini con la bava alla bocca che si urlavano cose volgari che se io avessi detto a tavola mio padre mi avrebbe schiaffeggiata senza esitazione”; la Rossanda come si sa non è una educanda conservatrice e bigotta, ma la fondatrice del Manifesto.

La de-culturalizzazione porta con sé la de-politicizzazione della società dove per politica si intende una visione del Mondo accompagnata da una capacità amministrativa. Il dato scoraggiante degli ultimi decenni ci mostra come l’ideologia - apparato organizzato di idee - è stata considerata un pericoloso retaggio del passato e ciò che dovrebbe fondare una visione politica, cioè filosofia e ideologia, sono ormai considerate delle inutili discipline. Da questa de-politicizzazione provengono amministratori e politici buoni per tutte le stagioni, che passano da sinistra a destra, da uno schieramento all’altro con estrema disinvoltura, la stessa disinvoltura che esprimono nel vantare il non avere pensieri politici di riferimento, ma voler solo fare il bene del territorio!

Come si fa il bene di un territorio se si è privi di visione, conoscenza, obiettivi? La risposta è semplice: i politici devono semplicemente eseguire i dettami delle linee dominanti e lisciare il pelo agli umori del popolo, trasformato in massa, anche quelli più pericolosi e indecenti. La politica è ridotta a slogan vuoti e contradditori, ad esempio si esulta per uno sgombero degli (odiati) migranti, ma non ci si pone il problema di dove andranno gli sgomberati, ovvero cento metri più avanti in attesa di un altro sgombero mediatico.

Amnesty International ci dice in questi giorni che il nostro Paese pratica una sistemica violazione dei diritti umani nei confronti di rom e migranti e questa violazione non indigna in quanto si è imposto un clima di guerra tra poveri, dove i diritti degli altri sono vissuti come un attacco ai miei, l’Altro di lacaniana memoria viene percepito come una minaccia all’Io! Non vi è integrazione neanche tra le generazioni, poste in continuo conflitto, e tra i vari settori del popolo. Il tormentone del radical chic ne è una riprova, basta avere un’idea filantropica ed esprimerla con educazione che subito scatta l’aggressione e l’accusa di lontananza dal popolo, dove il popolo viene rappresentato - e quindi - ridotto ad un ammasso di uomini minacciosi, gretti e volgari! Altro esempio può essere il continuo riferimento a politiche ecologiste che poi realmente nessuno pratica, nascondendosi dietro la parola sostenibilità si continua a colpire l’ambiente e a ritenere la tutela e la protezione ambientale roba da salotto! Ancora, si parla di migrazioni ma non si ricorda la responsabilità delle potenze europee nella colonizzazione dell’Africa, massimo esempio di sfruttamento dell’età moderna.

In un contesto del genere, Cirino Pomicino appare di fronte a Salvini e Di Maio un fine intellettuale!

E allora se le idee dominanti della società sono queste perché meravigliarsi del nichilismo di tanti giovani (non tutti, per compensazione molti altri sviluppano tratti opposti), del cinismo di tanti genitori che non accettano un figlio non performante e si scagliano quindi contro l’arbitro o il professore che non valorizza o penalizza il proprio pargolo, pargolo sconosciuto innanzitutto al genitore. Perché meravigliarsi - e infatti nessuno si meraviglia - della diffusione della cocaina, che ci rende sempre brillanti e in forma, coraggiosi e gioiosi; del narcisismo dilagato e divenuto da tratto patologico a tratto socialmente apprezzabile?! Il paradigma iper-moderno è sicuramente questo: produci-consuma-esibisciti-crepa; l’essere non è contemplato. Si dirà che è sempre stato così ma questo non è vero, per tanti decenni e in diverse epoche il paradigma dominante è stato fondato su valori diversi da quelli contemporanei come uguaglianza, fratellanza, rispetto dei diritti, cura dei propri tempi e del proprio essere e ricerca della spiritualità, parola maledetta in tempi di trionfo delle merci.

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