Martedì, 04 Marzo 2014 14:44

Quanto conta un laureato? Il calo delle immatricolazioni e la sfiducia nell'istruzione

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Nel quadro dei cambiamenti che il nostro Paese sta affrontando, le immatricolazioni subiscono un graduale quanto inesorabile calo. Sono trentamila gli immatricolati in meno negli ultimi tre anni e oltre 78mila negli ultimi dieci: è quanto emerge dai dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e relativi all'anno accademico 2013/2014. Quest'anno, i giovani che sono entrati per la prima volta all'università sono appena 260.245, cioè il 3,4% in meno rispetto ad un anno fa, quando gli immatricolati sfioravano i 270mila. Dieci anni fa - nel 2003/2004 - gli immatricolati erano 338.500.

Nel decennio clou della crisi abbiamo, dunque, perso 78mila studenti e studentesse che hanno deciso di non iscriversi all'univerisità, almeno qui in Italia. Ma che fine hanno fatto quei ragazzi? E perché hanno deciso di non prendere la laurea?

Come già accennato, la crisi ha senz'altro influito. A dimostrarlo è uno studio effettuato dall’Istituto Nielsen Holdings, secondo cui circa il 46% degli intervistati nel nostro Paese pensano che l’istruzione "aiuti" nella ricerca di un posto di lavoro ma solo il 16% ritiene che incida in maniera decisiva. Inoltre, un italiano su due è convinto che studiare con profitto non incida su quanto si guadagnerà (sono più ottimisti gli europei, con il 40%). Il 37% degli intervistati crede, invece, che lo studio influenzi parzialmente i guadagni e solo il 13% è dell’opinione che buoni studi equivalgano a un buon reddito. Non manca tuttavia la fiducia nelle scuole: il livello di soddisfazione delle scuole primarie e secondarie nelle proprie zone di residenza è insufficiente solo per il 14% italiani, mentre per le scuole superiori la percentuale sale al 17%.

Queste opinioni, seppur non sempre universali, non sono totalmente infondate se riflettiamo su quanti laureati talentuosi finiscano nei call center o a fare lavori che esulano dal loro percorso di studi. Ma non sono solo le incertezze sul futuro a spingere i ragazzi a non puntare sulla carriera universitaria. Occorre considerare anche l'aspetto economico relativo alle spese dell'istruzione: le tasse universitarie - unite alle poche borse di studio messe a disposizione dalle istituzioni (solo l’8% danno un giudizio positivo a riguardo) e alla necessità di spostarsi il più delle volte in un’altra città - sono uno scoglio insormontabile per molte famiglie.

Sentiamo spesso parlare di lavoratori precari, aziende in crisi, e padri e madri che perdono il lavoro, ma raramente ci si sofferma su che tipo di destino spetti ai loro figli. Giovani donne e uomini saranno costretti a fare determinate scelte, e non iscriversi all’università potrebbe essere una di quelle. Se qualche decennio fa c’erano genitori che, pur di vedere loro figli dottori o avvocati,  sacrificavano i propri risparmi, oggi la mancanza della certezza dell’impiego ha portato ad una sfiducia nei confronti dell’aspetto più pratico del percorso di studi: quello inerente al lavoro.

Dal punto di vista ideologico infatti, come emerge dagli studi, gli italiani non hanno smesso di credere nella scuola come "punto di partenza": tuttavia, per quanto sarebbe bello pensarlo, non sempre una laurea significa un posto di lavoro certo. Troppo facile elencare i problemi? Iniziamo a pensare insieme alle possibili soluzioni. Si potrebbe cominciare puntando maggiormente sulle borse di studio ed effettuando maggiori controlli sugli affitti. Soprattutto quelli in nero, che “stritolano” il mercato.

Inoltre, garantire un lavoro adeguato e proporzionato al proprio percorso di studi, per il momento resta un’utopia. Le istituzioni aiutino almeno gli studenti ad avere le “carte in regola” per affrontare un simile rischio.

 

Ultima modifica il Martedì, 04 Marzo 2014 15:44

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