A colloquio con l'avvocato

A colloquio con l'avvocato (33)

Nel Paese dei concorsoni o dei concorsi seguiti da scandali, si segnala una pronuncia del TAR Sardegna del 3 maggio 2017 n.281 in merito alle cause di incompatibilità dei commissari di esame.

Nel caso che trattiamo, alcuni concorrenti, partecipanti al concorso docenti, avevano presentato ricorso al Tar Sardegna, ritenendo rilevanti, ai fini dell’incompatibilità, le fotografie postate su facebook di alcuni concorrenti insieme con alcuni commissari di esami, nominati per quella selezione.

I canditati ritenevano violati i principi di trasparenza, par condicio, imparzialità della selezione pubblica.

Secondo il Tribunale Amministrativo, nei pubblici concorsi, i commissari hanno l’obbligo di astenersi soltanto nelle condizioni  previste dall’art. 51 c.p.c. e quindi  l’incompatibilità tra esaminatore e concorrente implica quindi o l’esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita tra i due soggetti di intensità tale da far ingenerare il sospetto che il candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della procedura, ma in virtù della conoscenza personale con l’esaminatore  ed idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento, ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.

Per tale ragione il Tar Sardegna, con pronuncia del 3 maggio 2017 n.281, ha respinto il ricorso di tali canditati, ritenendo che “ le c.d. amicizie su Facebook non rientrano nella casistica e sono del tutto irrilevanti in quanto lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con delle persone che nella vita quotidiano sono del tutto sconosciute” .

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La risarcibilità dei danni punitivi. Il nuovo orientamento della Cassazione dopo la sentenza n. 1601 del 5 luglio 2017


I danni punitivi sono un istituto giuridico degli ordinamenti di common law, in particolar modo di quello statunitense, secondo il quale, in materia di responsabilità extra contrattuale, consistono nel riconoscere in capo al danneggiato una somma di denaro ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito nell'ipotesi in cui il danneggiante abbia agito con dolo o colpa grave. 

Tale posta di danno era stata riconosciuta negli Stati Uniti per "punire" le grandi multinazionali che commettevano fatti che provocavano danni ai singoli cittadini: in passato, infatti, sono stati risarciti i "punitive damages" in capo alle multinazioni delle sigarette che non avevano adeguatamente informato i cittadini del rischio del pericolo del fumo.

La Corte di Cassazione aveva sempre negato l'istituto dei danni punitivi all'interno del nostro ordinamento, sostenendo che "nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento danni conseguente alla lesione del diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso".

Le Sezioni Unite, affrontando ora il caso del riconoscimento di sentenze pronunciate negli Stati Uniti in una causa di risarcimento danni da incidente motociclistico, hanno evidenziato come nel nostro ordinamento, oramai, deve trovare cittadinanza l'istituto dei danni punitivi, infatti, alla responsabilità civile non è assegnato soltanto il compito di ripristinare la situazione patrimoniale che ha subito un danno, "poiché sono interne al sistema sia la funzione di deterrenza che quella sanzionatoria". Sulla base di ciò, la Cassazione ritiene di poter riconoscere una sentenza straniera che preveda un'ulteriore posta di danno (quello punitivo per l'appunto), purché la stessa pronuncia sia ancorata ad un dato normativo che permetta la tipicità delle ipotesi di condanna, la loro prevedibilità ed i limiti di natura quantitativa del risarcimento.

Questa apertura delle Sezioni Unite non significa, però, che da domani anche per le cause nazionali i giudici italiani siano autorizzati ad incrementare il quantum del risarcimento, poiché per un'applicazione su larga scala, servirebbe un intervento normativo visto che ogni imposizione patrimoniale esige un'intermediazione legislativa per l’effetto del principio di cui all’art. 23 Cost., ma intanto un primo passo è stato mosso.

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La Cassazione penale con sentenza n.8080/2017 ha cercato di dirimere il confine di responsabilità nella fase post operatoria tra infermiere e medico.

L'anestesista e l'infermiere erano stati accusati per non aver vigilato su di un paziente nella fase del risveglio al termine di un'operazione chirurgica e di non essersi accorti di un successivo arresto cardiocircolatorio con conseguenti lesioni gravissime. I giudici della Cassazione hanno ritenuto che il Tribunale di primo grado non ha adeguatamente scisso le posizioni dei professionisti, confermando le responsabilità. Il Tribunale, ad opinione dei Supremi Giudici, ha fatto ampio riferimento alle linee guida ed ai protocolli operativi seguiti dal medico, ma poi ha concluso affermando che se i due professionisti avessero tempestivamente accertato l’arresto cardiocircolatorio e avessero predisposto il giusto intervento – e non dopo dieci minuti dall’attacco respiratorio- avrebbero con elevato grado di probabilità evitato le lesioni gravissime.
Tale sentenza, impugnata dai professionisti e dal responsabile civile ASL, è stata confermata dalla Corte di Appello di Catania in data 12.11.2015.

I Giudici di seconde cure hanno sovrapposto le due differenti posizioni di garanzia, senza chiarire il "diligente comportamento alternativo corretto" e senza altresì valutare "la deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato dalle standardizzate regole d'azione" ed in che misura si è realizzata la divergenza tra condotta tenuta e quella che era da tenere.

In sostanza, la Cassazione ha rilevato un difetto di motivazione in merito alla distinzione tra fase di risveglio e di recupero, la prima affidata al medico, che deve intervenire con le adeguate tecniche, la seconda all’infermiere, al quale è richiesta l’assidua sorveglianza del paziente per controllare l’evoluzione della situazione e sollecitare l’intervento del medico.

La sentenza di secondo grado, quindi, ha ritenuto che le due condotte fossero del tutto identiche e sovrapponibili, come se fosse necessaria la presenza in entrambe le fasi di tutte e due i professionisti.

Nel caso in esame, l'anestesista si è allontanato dalla stanza quando il paziente era già nella fase di recupero, lasciando l'infermiere a sorvegliare il decorso post operatorio del paziente e quindi è necessario valutare se sia ravvisabile colpa grave nei comportamenti dell’anestesista. Pertanto la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rinvia per un nuovo esame alla Corte di Appello di Catania, al fine preciso di stabilire i confini di responsabilità tra infermiere ed anestesista. 

L’attività di consulenza ed in genere l’attività di prestazione intellettuale, in passato, era riservata al solo professionista iscritto in un apposito albo. A tale attività, il codice civile prevedeva l’applicabilità della prescrizione presuntiva triennale ai sensi dell’art. 2956 c.c. , secondo cui “ si prescrive in tre anni, il diritto: dei prestatori di lavoro per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese; dei professionisti per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlate; dei notai per gli atti del loro ministero; degli insegnanti per la retribuzione delle lezioni impartite a tempo più lungo di un mese”.

Il caso in oggetto riguardava un decreto ingiuntivo proposto da una società di contabilità per un importo di L.5.310.735 quale corrispettivo per la tenuta di contabilità fiscale di due anni.

Tale decreto ingiuntivo era stato opposto dalla ditta ed il Tribunale accoglieva tale domanda. La Corte di Appello aveva respinto l’eccezione di prescrizione presuntiva, osservando che l’art. 2956 c.c. n.2) si riferisse soltanto ai crediti dei professionisti e perciò non applicabile ai crediti vantati dalle società, pertanto la ditta opponente avrebbe dovuto saldare il proprio debito con la società di professionisti.

Avverso tale sentenza, i legali rappresentanti della ditta opponente proponevano ricorso per Cassazione, la quale, con sentenza del 2015 n.13144, si è domandata se tale prescrizione si applicasse anche alle società di professionisti. La stessa Suprema Corte assegnava il caso alle Sezioni Unite affinché “riflettano sul sé e sui margini della nuova figura di professionista – siccome destinata a connotarsi anche in forma societaria- si riverberi sulla nozione di professionista di cui all’art. 2956 c.c. n.2) “.

La Corte di Cassazione con tale sentenza depositata il 25 giugno 2015 ha espresso il seguente principio di diritto: “ la prescrizione presuntiva triennale del diritto dei professionisti, per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso delle spese correlative (articolo 2956 c.c., n. 2), trova la sua giustificazione nella particolare natura del rapporto di prestazione d'opera intellettuale dal quale, secondo la valutazione del legislatore del 1942, derivano obbligazioni il cui adempimento suole avvenire senza dilazione, o comunque in tempi brevi, e senza il rilascio di quietanza scritta. Ne consegue, in un regime nel quale il contratto d'opera professionale sia caratterizzato dalla personalità della prestazione, non solo che ad una società può essere conferito soltanto l'incarico di svolgere attività diverse da quelle riservate alle professioni c.d. protette, ma anche che deve necessariamente essere utilizzato uno strumento diverso dal contratto d'opera professionale e che perciò alla società non può essere opposta la prescrizione presuntiva triennale”. 

Quindi, la Suprema Corte, con tale sentenza e annotato principio di diritto, chiarisce, una volta per tutte, che la prescrizione presuntiva ex art. 2956 c.c. n.2) si applica ai soli professionisti e non alle società professionali.

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La Cassazione ha lungamento dibattuto circa la responsabilità dell’ASL per la condotta negligente del medico e tale tematica è stata trattata in termini innovativi con sentenza della Cassazione n.6243 del 2015.

La Suprema Corte, quindi, non è stata chiamata soltanto a dirimere il contrasto tra natura extra contrattuale e contrattuale della responsabilità del medico, con decisioni non sempre concordanti, ma ha affrontato anche il caso dell’eventuale responsabilità dell’ASL nel caso in cui il  medico, in una visita domiciliare, non ha rilevato le gravi condizioni del paziente e non ha posto lo stesso nella condizione di essere ricoverato, con conseguenti gravi ed irrimediabili danni fisici in capo al paziente. In primo grado, la Corte territoriale aveva negato la responsabilità dell’ASL ex art. 1228 (da contatto sociale), perché la responsabilità per la prestazione professionale grava soltanto sul medico, mentre al Servizio Sanitario Nazionale competono obblighi di tipo organizzativo. I giudici di merito, quindi, avevano sottolineato che non si potesse far riferimento alla teoria del contatto sociale, in quanto l’ASL non ha alcun rapporto diretto con il paziente, né alcun potere di controllo nei confronti del medico che opera in totale autonomia. L’ASL essendo estranea al rapporto medico/paziente, non può essere ritenuta responsabile per l’errore medico.

La teoria del contatto sociale è una forma di responsabilità contrattuale, che non nasce, però, dal contratto, ma da un “contatto sociale”, cioè da un rapporto che si instaura tra due soggetti in virtù di obbligo legale.

La Suprema Corte, però, in controtendenza a quanto affermato dal Tribunale di merito ha ritenuto che anche in casi come quelli su indicati l’ASL deve essere ritenuta responsabile e ciò sulla base di ben quattro passaggi motivazionali:

  • la legge istitutiva del SSN n.833/1978 attribuisce al Servizio Sanitario il compito di garantire i livelli minimi ed uniformi per le prestazioni sanitarie ai cittadini e quindi anche quella di “assistenza medico-generica”;
  • in base a tale legge, la scelta del medico deve avvenire nei confronti della ASL, che tiene gli appositi elenchi dei professionisti, anche in base ad accordi regionali, e quindi i medici sono legati all’ASL in un rapporto di convenzionamento;
  • alla luce di quanto esposto, sulla ASL grava una obbligazione ex lege di prestazione ed assistenza medica, tramite il rapporto di convenzionamento;
  • in mancanza di un contratto tra l’ASL e paziente, trova applicazione la responsabilità da contatto sociale, cui conseguono l’applicazione delle norme del codice civile ed in particolare dell’art. 1228 c.c..

Secondo la Cassazione recente, quindi, l’ASL è sempre ritenuta responsabile nei confronti dei pazienti ai sensi dell’art. 1228 c.c., sub specie di responsabilità da contatto sociale, in quanto l’obbligo di assistenza grava per legge sull’ASL che lo adempie con l’ausilio dei medici, che intervengono, così, nella fase esecutiva del rapporto di convenzionamento.

La Cassazione con sentenza n. 46874 del novembre 2016 ha finalmente precisato quali sono i limiti imposti al soggetto che si trova agli arresti domiciliari. Innanzitutto tale misura viene applicata dal Giudice per le indagini preliminari su richiesta del Pubblico Ministero quando vi sono condizioni ed esigenze previste dagli artt. 273 e ss c.p.p..

Il primo di questi articoli statuisce che affinché un soggetto venga sottoposto alla misura cautelare devono sussistere gravi indizi di colpevolezza e l'art. 274 c.p.p. impone l'applicazione di tale misure nel caso in cui sia presente una delle esigenze cautelari tra il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo della fuga ed il pericolo di reiterazione del reato. Nel disporre la misura cautelare, il Giudice dovrà valutare l'idoneità della stessa in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari e quindi la misura della custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quanto ogni altra misura risulta inadeguata.

Nel caso oggetto della sentenza, al soggetto destinatario della misura era stato anche imposto il divieto di comunicare con persone non conviventi e pertanto la Cassazione si domanda se il fatto che l'arrestato abbia utilizzato il social network (nella specie Facebook) sia una violazione di tale prescrizione.

Infatti, a seguito di tale comportamento, il G.I.P. del Tribunale di Ragusa aveva disposto l'aggravamento della misura custodiale da domiciliare ad inframuraria e questa ordinanza era stata poi confermata anche dal Tribunale del Riesame di Catania. Avverso tale ordinanza, proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell'arrestato che deduceva il fatto che il messaggio (impropriamente attribuito all'indagato, che invece si è limitato a condividerlo) non ha alcun carattere intimidatorio né trasgressiva della misura imposta.

La Cassazione, confermando le tesi del Gip e del Tribunale del Riesame, ha ritenuto che: "La prescrizione di non comunicare con persone estranee deve essere inteso nel senso di un divieto non solo di parlare con persone non conviventi, ma anche di stabilire contatti con altri soggetti, sia vocali che a mezzo congegni elettronici. Il messaggio diffuso sul social network, peraltro, è oggettivamente criptico per i più ed indirizzato a chi può comprendere perché sottintende qualcosa di riservato e conosciuto da una ristretta cerchia di persone ed è chiaramente intimidatorio, a dispetto del tono volutamente suggestivo, rafforzato dalle coloratissime emoticon, ancora più esplicitamente intimidatorie".

Per tali ragioni, la Suprema Corte ha asserito che la violazione delle prescrizioni ha denotato un'inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari, stante l'inaffidabilità dell'indagato e stante anche il tenore dei messaggi postati che avevano un contenuto incerto e criptico tali da poter lasciare sottintendere qualcosa di decodificabile ad una ristretta cerchia di soggetti.

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Con sentenza del 14 luglio 2015, il Tribunale di Milano affronta la questione relativa alla rilevanza penale della cosiddetta "truffa sentimentale" quando, cioè, una persona, ingannando il proprio partner circa i propri sentimenti, lo induca ad effettuare in suo favore una prestazione patrimoniale.

Nella specie, l'imputato era stato accusato, per aver, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, indotto in errore la donna con cui intratteneva una relazione sentimentale, sfruttando il sentimento affettivo, illudendola sulla futura costruzione di una famiglia e rassicurandola circa la restituzione del denaro. In totale, l'imputato si sarebbe fatto corrispondere dalla donna 16.500 €, cifra che non ha più restituito alla donna, nonostante le continue richieste. Il Tribunale di Milano, però, ritiene che nel caso trattato, non si configura in alcun modo alcun reato, né tantomeno il reato di cui all'art. 640 c.p., in quanto, astrattamente la condotta dell'uomo potrebbe rientrare nella truffa mediante cooperazione della vittima, carpita con la frode, poiché lo stesso imputato ha posto in essere un comportamento fraudolento con artifizi e raggiri con cui ha indotto in errore il soggetto passivo, quest'ultimo ha poi compiuto un atto di disposizione patrimoniale, dal quale deriva un danno ingiusto ed un profitto ingiusto all’agente.

Secondo, però, il Tribunale lombardo, per far sì che la truffa sentimentale possa rientrare nell'alveo della rilevanza penale, il Giudice dovrà valutare alcuni aspetti: in primo luogo la concreta portata fraudolenta della condotta, cioè la truffa non sussisterà se l'inganno non sia stato tessuto in modo artificioso ed attraverso un'alterazione della realtà esterna o con menzogna; in secondo luogo il Giudice dovrà accertare l'elemento del dolo, che dovrà sussistere già all'inizio della condotta ed infine si dovrà valutare il rapporto causale tra errore ed atto di disposizione, cioè non vi sarà truffa se l'errore non è stato causa dell'atto di disposizione e che non si riesca a dimostrare che in assenza di inganno, quell'atto non sarebbe mai stato posto in essere.

Secondo, quindi, il Tribunale di Milano poiché non è possibile conoscere tutte le componenti della coppia (cioè tutte le ragioni secondo le quali una persona decida di stare con un'altra) deve ritenersi impossibile provare altre cause sufficienti a giustificare l'atto dispositivo.
Per tali motivi, il Tribunale di Milano ha mandato assolto l'uomo dal reato ascritto perché il fatto non sussiste, per assenza di due elementi necessari e cioè la condotta fraudolenta ed il dolo iniziale. Al contrario, sarebbe stato punibile per il reato di truffa, la condotta di un soggetto che intraprende un'apparente relazione sentimentale con una donna, al solo scopo di ricevere dalla medesima un prestito in denaro.

Pertanto se è vero come descritto che la mancata restituzione del denaro non integra alcun reato, è altrettanto vero che tale condotta può configurare una violazione contrattuale: infatti le parti avendo pattuito la futura restituzione di somme di denaro date in prestito, l'operazione sia qualificabile sotto il contratto di mutuo. Al momento della consegna del denaro, l'imputato/mutuatario ne acquista la proprietà ex art. 1814 c.c., rimanendo vincolato all'obbligo di restituire la somma stabilita.

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Il delitto di rapina di cui all'art. 628 c.p. costituisce un tipico esempio di reato plurioffensivo che lede non soltanto l'interesse patrimoniale ma anche la libertà individuale del soggetto passivo. Tale reato è un classico esempio di reato complesso, poiché deriva dalla commistione di due reati quello di furto (impossessamento) e quello di violenza privata (utilizzo della violenza e della minaccia al fine dell'impossesamento).

Esso può essere commesso da chiunque, mentre il soggetto passivo del reato può non coincidere con il soggetto passivo della condotta. La rapina si distingue in rapina propria, dove il soggetto agente commette la violenza fisica o psichica per impossessarsi della cosa e dove, quindi, la violenza è un mezzo utilizzato per impossessarsi del bene; e rapina impropria dove invece il soggetto agente adopera violenza o minaccia per impossessarsi della cosa sottratta e quindi la violenza e l'impossessamento si trovano in due momenti differenti, tanto da porre dei problemi riguardo la consumazione del reato. Infatti, secondo una tesi la sottrazione e la violenza devono porsi come azione immediata ed unitaria; mentre secondo un'altra teoria le due azioni devono essere contestuali e quindi non rientrano nella fattispecie le ipotesi di flagranza o quasi flagranza.

Il delitto di estorsione (art. 629 c.p.) si configura quando il soggetto, utilizzando violenza o minaccia, costringe taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procurando a sé o altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Ciò significa che è un reato che può essere commesso da chiunque e che invece il soggetto passivo può essere il titolare del potere giuridico di disporre dei beni ma anche un soggetto diverso rispetto a quello a cui è diretto la violenza.

La condotta di minaccia o violenza oltre che essere palese, esplicita e determinata, può essere manifestata in differenti forme e modi ed anche implicitamente, tanto è vero che si ritiene integrato il reato di estorsione nella condotta di colui che richiede una somma sproporzionata a titolo di risarcimento danni, mentre invece il Tribunale di merito di Roma, nel 2014, non ha ritenuto sussumibile il reato di cui all'art. 629 c.p. nella condotta di una prostituta che aveva minacciato il proprio cliente per ottenere il pagamento della prestazione sessuale. Secondo il Tribunale, infatti, "tra le prestazioni contrarie al buon costume non è ricompreso l’esercizio della prostituzione, trattandosi di una attività ampiamente diffusa nella collettività...".

Come si può notare, il confine tra delitto di rapina e quello di estorsione è molto sottile in quanto entrambi i reati presuppongono l'utilizzo della violenza e minaccia, ma la Cassazione con sentenza n.11909 del 2013 ha individuato con molta chiarezza la distinzione tra estorsione e rapina, infatti secondo la Suprema Corte "per la sussistenza del delitto di estorsione non si richiede che la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, sia completamente esclusa, ma che residuando la possibilità di scelta tra accettare le richieste dell'agente o subire il male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata dal timore di subire il pregiudizio; se la minaccia, viceversa, si risolvesse in un costringimento psichico assoluto, cioè in un annullamento di una qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato dell’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe un vero e proprio impossessamento e il diverso reato di rapina".

Ciò significa che nell'ipotesi in cui al soggetto passivo fosse lasciata una residua scelta tra la sua volontà e subire la minaccia, l'agente risponderà del reato di estorsione, mentre nell'ipotesi in cui il soggetto leso non ha alcuna possibilità di autodeterminarsi e la condotta del reo fosse incentrata sul bene mobile, quest'ultimo risponderà del reato di rapina.

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Giovedì, 15 Settembre 2016 15:35

Il danno da vacanza rovinata

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La principale novità introdotta dal codice del turismo con Dlgs. 79 del 2011 è rappresentato dalla previsione espressa del danno da vacanza rovinata cioè dal danno collegato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irrepetibilità dell'occasione perduta.

L'Art. 47 del citato Codice del turismo, quindi, fa dipendere la risarcibilità del danno non patrimoniale dal fatto che l'inadempimento o l'inesatta esecuzione sia di non scarsa importanza.

Certo è che l'aver legato la risarcibilità del danno alla gravità dell'inadempimento è una scelta comprensibile che rientra nella discrezionalità del legislatore, ma il problema risulta che il risarcimento non sarà uguale caso per caso e che la valutazione fondata sulla gravità autorizzerà i giudici ad instaurare una relazione di proporzionalità tra risarcibilità ed entità del danno.

L'art. 42 del Codice del turismo, inoltre, prevede che il turista, in caso di recesso dal contratto per modifiche contrattuali unilaterali o di cancellazione del pacchetto di viaggio, possa chiedere il risarcimento del danno derivante la mancata esecuzione del contratto.

In questo caso, cioè, il turista potrà procedere a richiedere il risarcimento danno, senza neppure l'onere di allegare che il danno ha avuto ripercussioni sulla sua sfera personale, mentre nell'ipotesi di danno da vacanza rovinata, lo stesso consumatore dovrà dimostrare che il danno non sia di grave entità. Sotto questo punto di vista, il codice del turismo appare in contraddizione al suo interno, ma sarà compito della giurisprudenza ricondurre ad unità il sistema ed evitare che si possa arrivare ad ipotesi distorsive ed ingiuste.

Il codice del turismo, in sostanza, ripercorre le vicende giurisprudenziali che hanno caratterizzato il danno non patrimoniale da danno da vacanza rovinata. Infatti, sotto anche l'impulso della giurisprudenza comunitaria, con le sentenze del 2008, la Corte di Cassazione ha riconosciuto ed accordato ad un turista il danno non patrimoniale.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale atteneva anche al profilo della patrimonialità o meno del danno: c'era un testi risalente nel tempo che riteneva che stante il pregiudizio economico subito dal consumatore, la risarcibilità del danno non poteva che essere patrimoniale.
La tesi più recente, invece, insisteva sulla natura di danno non patrimoniale ed alcuni filoni di questa teoria asserivano che il danno fosse di natura biologica assimilabile, cioè, alla lesione al diritto alla salute, con patologia medicalmente accertabile; un altro filone riteneva che fosse un pregiudizio di tipo morale riconnesso al patema d'animo ricollegato ad un'aspettativa di riposo ed infine un altro riconosceva tale danno di natura esistenziale e cioè alla lesione del diritto del consumatore di godere del periodo di svago e di riposo.

Le sentenze gemelle della Cassazione 2008 hanno sostenuto che il danno non patrimoniale avesse valenza unitaria, senza che le distinzioni avessero valenza in merito alla risarcibilità del danno.

Pertanto nel nostro sistema, alla luce della costante giurisprudenza e della normativa introdotta nel 2011, il danno da vacanza rovinata viene oramai compreso nell'ipotesi di danno non patrimoniale.

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L'art. 143 del codice civile italiano stabilisce che "con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Dal matrimonio deriva l'obbligo di fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia ed alla coabitazione". Il matrimonio concordatario, tuttavia, può essere dichiarato nullo se sono presenti uno di tali motivi: la mancanza del consenso di uno dei due coniugi (compresa la riserva mentale e simulazione di matrimonio); la circostanza che uno dei coniugi escluda una delle finalità del matrimonio religioso, quali la procreazione, la fedeltà ed indissolubilità del vincolo, l'errore sulla persona, violenza e timore, l'impotenza al rapporto sessuale ed infine il caso del matrimonio rato e non consumato.

Con sentenza n.18695 del 2015, la Cassazione affronta il tema della circolazione delle sentenze ecclesiastiche, relative all'accertamento dell'invalidità del matrimonio concordatario, in quanto al Giudice italiano spettano soltanto le valutazioni sugli effetti civili, mentre conosce della nullità dell'atto matrimoniale in concorso con la giurisdizione ecclesiastica, conflitto che può essere risolto sul piano del criterio della prevenzione (cioè della giurisdizione adita per prima).

Nel caso di specie, la Corte di appello di Firenze aveva accolto la domanda di riconoscimento di una sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario. La parte soccombente ricorreva in Cassazione deducendo quale motivo, la violazione e falsa applicazione della L.121 del 1985, dell'art. 123 c.c. e dell'art. 29 Cost., poiché la Corte di secondo grado non aveva tenuto adeguatamente in considerazione il fatto che la convivenza si era protratta per ben sedici anni e quindi essa era ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica.

La Cassazione ritiene fondata tale doglianza sulla base di un orientamento consolidato che dà rilevanza di ordine pubblico alla durata del rapporto oltre il limite dei tre anni. Superato tale termine, il nucleo si connota di una complessità fattuale, connessa all'esercizio dei diritti, adempimento dei doveri ed assunzione di responsabilità di natura personalissima. In conclusione non può dichiararsi la nullità del vincolo matrimoniale se la convivenza perdura oltre i tre anni, ma tale limite non opera nell'ipotesi in cui vi sia una domanda di nullità congiunta dei coniugi.

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