Martedì, 14 Aprile 2020 08:59

La pandemia e la necessità di cambiare la nostra visione del mondo

di 
Vota questo articolo
(3 Voti)

“La realtà è peggiore: all’uomo non è possibile evadere dalla natura, tutt’altro che pacifica e armonica nel suo essere. La teoria dell’evoluzione mostra come si realizzi la sopravvivenza degli organismi più forti e adattabili. Una volta nati siamo destinati a scomparire, e nel frattempo siamo impegnati, in competizione con gli altri viventi, ad assicurare la sopravvivenza ai nostri geni. Tutto ciò ci inquieta e sottomessi alla natura, torna a noi, ancora più urgente, la domanda: dov’è dunque Dio?”.

Con questa frase inserita in un lungo articolo dell’11 aprile ’20, apparso su Avvenire, Dietrich Korsch, teologo luterano, testimonia il dubbio e la riflessione che anche la teologia si pone sul futuro dell’umanità, o meglio, del Creato, ai tempi della pandemia. Il teologo conclude la sua riflessione sostenendo che “la natura non determina il senso della nostra esistenza poiché nulla ci può separare dall’amore di Dio”. In tal modo prova a risolvere il dubbio che investe tutti noi sul complesso rapporto uomo/natura che è alla base della nostra sopravvivenza e dell’esplosione della pandemia virale.

Cambiando registro e passando dalla teologia alla scienza, la letteratura scientifica da tempo ha identificato i fitti legami fra la diffusione delle patologie infettive e fattori antropici, ne elenchiamo alcuni: 

  • l’elevata densità abitativa dei centri urbani, nei quali vengono ammassati milioni, decine di milioni di individui, spesso strappati da ambienti rurali con il loro portato di usi e costumi. Il mercato arcaico di Whuan, da dove pare sia partito il virus, ai piedi degli enormi grattacieli, centro della finanza della più grande potenza economica mondiale, ci racconta di questa velocità non sostenibile per l’uomo, per integrarsi e adattarsi al nuovo modo di vivere. In questo senso l’uomo è antiquato, non tiene il passo dei cambiamenti che produce. Una volta in più la pandemia ci interroga su come costruiamo ed abitiamo gli spazi;
  • l’ampliamento smisurato dei terreni coltivabili ai danni della foresta per potenziare gli allevamenti intensivi, vera bomba ecologica che crea problemi sanitari dalla fase della nutrizione del bestiame, passando per la macellazione, per finire al consumo di un prodotto non certo “sano”;
  • I continui e frenetici spostamenti di centinaia di milioni di individui da una parte all’altra del mondo, per ragioni diverse: commerciali, turistiche, produttive in senso più ampio. Questi continui spostamenti oltre a muovere persone e virus creano un impatto in termini ecologici mostruoso, navi ed aerei sono tra i principali produttori di inquinamento.

E potremmo continuare con altri esempi.

In questo modo il nostro ruolo predatorio nei confronti della natura ha causato il convergere di due crisi, quella ecologica e quella sanitaria. Sappiamo che non potremmo salvarci solo con i progressi della ricerca scientifica (dopo questa pandemia ve ne saranno delle altre), ma cambiando i nostri stili di vita o meglio la nostra visione del mondo e del suo esserci.

Edgar Morin sostiene che l’uomo è anche demens, non solo sapiens. La natura e l’uomo sono abitati da sempre anche da disordine e distruttività, che non possiamo dominare. Illudersi di possedere tutto con l’inevitabile Progresso, assurto a legge ineludibile della Storia, ci espone ad un terribile tradimento, che ci trova culturalmente e psicologicamente impreparati. La Storia si muove verso l’incertezza, in questi tempi ci confrontiamo, come in altre epoche definite buie e torbide, con l’irrazionale e il precario. Le categorie della crescita, dello sviluppo, del reddito mostrano, come in tanti inascoltati avevano previsto, non solo la loro inadeguatezza ma anche la loro pericolosità.

Se questo è il futuro allora dobbiamo prepararci ad affrontarlo dal punto di vista politico, economico, individuale e psichico.

Per brevità analizziamo solo alcune dimensioni che richiederanno una nostra scelta.

La sanità. Se qualcosa ci ha insegnato questa vicenda è che la sanità deve essere un diritto universale e non un privilegio. Il modello sanitario americano (quello delle assicurazioni) mostra la sua inadeguatezza e crudeltà; tutti gli esseri umani, in quanto tali, hanno diritto alle cure, è eticamente giusto così, è più sicuro per l’intera società. La sanità pubblica diviene garanzia di giustizia sociale e qualità. Quando la gestione della sanità si pone come fine quello del business finisce per partorire dei mostri; ospedali pubblici indeboliti per favorire il privato, reparti potenziati in base agli interessi economici da attrarre, distanza siderale dalla realtà di milioni di cittadini. Una sanità che va ripensata sul territorio, con presidi diffusi e “vicino” alle persone, non più solo ospedali che dovrebbero assolvere tutte le funzioni. Andrebbe rivista radicalmente anche la concezione della formazione, riducendo i numeri chiusi nelle professioni sanitarie, evitando in tal modo il paradosso che i giovani vadano a studiare medicina o psicologia all’estero, stroncati dal numero chiuso in Italia, e poi in caso di bisogno chiedere medici a Cuba, Russia, Cina e richiamare in servizio i pensionati. Prassi questa ultima, in realtà, in uso già prima della pandemia. Per fare questo naturalmente sarà necessario implementare il personale docente e le strutture formative, reparti, ambulatori, dipartimenti.

Ambiente e turismo. Abbandonare definitivamente l’idea di essere padroni e possessori della natura, archiviando l’ipocrita utilizzo di espressioni quali sostenibilità, quando vengono utilizzate per realizzare opere che non hanno nulla di sostenibile. Essere consci del fatto che le categorie di sviluppo e crescita se portate all’infinito ci espongono alla catastrofe. Il turismo di massa ne è uno dei massimi esempi. New York in tre giorni, Mosca e San Pietroburgo in un week-end, la Giordania in 4 giornate e via dicendo: questo modello low coast muove milioni di persone che consumano troppe risorse e che trasformano l’essere umano in un consumatore globale ben lontano dal viaggiatore che scopre e vede nuovi mondi e culture, ammesso che nel modo globalizzato ve ne siano ancora. La limitazione agli spostamenti magari ci porterà a fare un viaggio di 15 giorni l’anno in un luogo, invece che cinque frenetici, consumistici week-end all’estero ogni anno. Magari le spiagge torneranno ad essere un luogo di relax e non di confusione dove ammassare migliaia di persone in pochi metri, per poi erodere alla natura altre spiagge per altri ammassamenti. Magari impareremo, come altre popolazioni, a viaggiare tutto l’anno e non solo ad agosto, magari torneremo a scoprire luoghi dimenticati perché esclusi dai grandi circuiti turistici. In conclusione, torneremo ad essere viaggiatori e non più turisti compulsivi.

Città. Costruire spazi adeguati all’uomo, nei suoi bisogni e nelle sue esigenze. La costruzione delle città dovrà, avrebbe dovuto, rispondere a questi criteri e non a quelli del profitto. Si sono realizzati, in tutto il mondo, spazi angusti, privi di servizi e bellezza, dove ammassare decina di migliaia di persone chiamate forza-lavoro. Migliaia di persone da spostare nei luoghi della produzione su trasporti simili al quelli del bestiame, altrettanto indecenti e indegni. La quarantena ci pone con forza la domanda: dove viviamo? La risposta ci apre ad un altro indissolubile interrogativo: come viviamo in questo posto? Dove le persone vivono ammassate registriamo maggiore fragilità e vulnerabilità sanitaria e psicologica, andrebbero dunque ripensati e riqualificati i luoghi che abitiamo, i trasporti, le opere da realizzare e quelle assolutamente da non realizzare più. I tanti miliardi che si vogliono investire in inutili e superati complessi turistici di massa, ad esempio, potrebbero essere utilizzati per potenziare finalmente i trasporti pubblici.

Nella ri-organizzazione dello spazio sarà necessario pensare una ri-organizzazione dei tempi, quelli di lavoro e quelli personali, quelli scolastici e quelli ludici. Liberando magari e finalmente delle ore per sé stessi, attraverso appunto una nuova organizzazione e concezione del tempo e dell’uomo.

Organizzazione socioeconomica. Le difficoltà si affrontano insieme, ci si salva insieme. Uguaglianza e fraternità dovrebbero essere le idee del XXI secolo. Solo sentendoci partecipi di un destino comune potremmo far fronte alle incertezze e angosce del presente e del futuro. Non più una società dunque di ultraricchi e tantissimi poveri che si arrangiano, fondata sull’accumulazione di ricchezze, ma un sistema più bilanciato, al centro del quale porre l’organizzazione dei cosiddetti beni comuni (espressione abusata quanto resilienza): sanità, città, ambiente, sapere.

Infine, di fronte alla finitezza di essere mortali e all’incertezza del vivere, abbandonando frenesie e narcisistici desideri compulsivi della ipermodernità, potremmo riscoprire il miracolo quotidiano di esseri vivi.

Letto 10664 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Aprile 2020 22:18
Chiudi