Dopo una seria di indagini durate circa un anno, il GIP del Tribunale di Chieti ha disposto il sequestro preventivo della cava di proprietà della SAD Srl, in località “Foce” nel Comune di Rapino. È stata contestata un’attività abusiva di estrazione: la ditta proprietaria, dal 2009, era autorizzata alla sola lavorazione del materiale già estratto ed accumulato nel sito della cava, ma non all’effettuazione di ulteriori scavi.
I lavori di escavazione effettuati illecitamente, erano mascherati da artificiose movimentazioni del terreno. La cava non è nuova a sequestri. L’ultimo, nel 2010, scattò per mancato rispetto del veto di prelievo di nuovo materiale. Oggi, a distanza di due anni viene contestata la stessa violazione: né il precedente sequestro, né l’espresso divieto di escavazioni hanno, quindi, impedito l’interruzione dei lavori.
La cava, inoltre, si trova all’interno dei confini del Parco Nazionale della Majella, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico: i lavori di sfruttamento del territorio sono andati avanti per decenni nella totale noncuranza sia delle prescrizioni di legge, sia degli effetti negativi che hanno prodotto sull’ambiente.
Dopo decenni di attività di estrazione i danni ambientali sono incalcolabili: la prospettiva orientale della Majella e tutti i paesaggi naturali che si affacciano sulla Valle dell’Alento sono totalmente rovinati. Oltre alla devastazione ambientale, ci sono poi i danni al patrimonio artistico. Non distante dalla cava si trova, infatti, una delle perle archeologiche della nostra regione: un sito che ospita, oltre ai resti di una necropoli distrutta, la "Grotta del Colle", santuario italico dove rinvennero, tra l’altro, la "Tavola" in lingua marrucina e la "Dea di Rapino". E proprio all’interno dell’area di estrazione della ditta Sda venne rinvenuta la "Grotta degli Orsi Volanti", una grotta con un’importante stratificazione di epoca preistorica, che la ditta distrusse nel 2006.
In altre parole, un intero territorio ha subito gli effetti devastanti di lavori di escavazione che, per legge, non dovevano essere svolti. Ma la situazione di Rapino è solo la punta di un iceberg: l’Abruzzo è una delle poche regioni italiane a non avere ancora un piano cave. In attesa della sua definizione, la mancanza di strumenti di pianificazione ha fatto della nostra regione un vero e proprio far west delle attività di escavazione: in Abruzzo le cave attive sono 596 (dato risalente al marzo 2012 e il primo ufficiale relativo alle cave abruzzesi), numero paragonabile a regioni come la Lombardia e il Veneto. Non si hanno invece dati circa le cave dismesse e quelle effettivamente in regola.
Uno spiraglio si ebbe nel 2011, quando il consigliere regionale Maurizio Acerbo propose una moratoria, inserita nella finanziaria regionale e passata poi in Consiglio con voto favorevole di tutte le forze politiche - Pd escluso -, con la quale veniva disposto il blocco di nuove autorizzazioni alle attività estrattive fino alla definitiva stesura di un vero e proprio piano cave. La moratoria ebbe vita breve: fortemente osteggiata da Confindustria, dopo poco meno di un anno, in sede di Consiglio regionale, venne abrogato l’articolo della Finanziaria che imponeva lo stop alle nuove autorizzazioni. Parallelamente all’abolizione della moratoria, la redazione del piano cave venne affidata al presidente di Assomineraria, associazione mineraria italiana per l'industria mineraria e petrolifera, che nel settore raggruppa 18 imprese che estraggono dal sottosuolo nazionale minerali solidi.
La normativa così redatta, più che essere un piano organico, si limita ad introdurre nuove discipline in materia di attività di escavazione, e dovrà essere sottoposta all’esame della commissione regionale. Ad oggi, dunque, in Abruzzo ancora non esiste un piano cave. E si continua a devastare il territorio.