L'Italia non è un paese per mamme. Discriminazioni nel mondo del lavoro impediscono, alle donne con figli, di rientrarvi alle stesse condizioni di prima; maternità che si traduce in una disoccupazione forzata; difficoltà ad accedere ai servizi per l'infanzia, come nidi e baby sitting, inesistenti o eccessivamente onerosi; inquadramenti lavorativi al di fuori di forme contrattuali che riconoscano l'indennità alla maternità; mancanza di sostegni ad una genitorialità condivisa che costringono le donne a farsi carico in modo esclusivo della cura dei propri figli e, in molti casi, a rinunciare al proprio posto di lavoro.
Dinamiche che rendono sempre più difficile conciliare vita lavorativa e familiare e che persuadono un numero sempre maggiore di donne a rinunciare alla maternità. Le ragioni? Solo di ordine culturale, evidenti nella logica che vorrebbe fare del lavoro riproduttivo e della cura familiare una questione meramente femminile.
E' da più parti dimostrata la perdita in termini economici conseguente a quest'ordine di cose. Si può citare, tra tutti, il Rapporto annuale Inps 2017 riferito al 2016, che evidenzia come il basso tasso di occupazione femminile in Italia, sintomo di un mercato del lavoro che tende a discriminare le donne in quanto donne, sia associato ad un tasso di natalità tra i più bassi in Europa, laddove, in paesi in cui la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è elevata, le stesse decidono di fare figli o di farne più di uno.
A sottolineare come una bassa occupazione femminile si traduca in un minor numero di figli e in ultimo in una perdita per le casse dell'Inps che mette a rischio la sostenibilità del nostro sistema pensionistico, il rapporto fa luce sui fattori che contribuiscono all'uscita dal mercato del lavoro delle donne e alla produzione delle differenze di genere specialmente in termini di gap reddituale. Tra le maggiori determinanti figura la maternità. Dopo la nascita del primo figlio, il reddito delle donne che tornano a lavorare dopo il congedo diminuisce di circa il 10% rispetto ai livelli iniziali. Perdita che arriva a sfiorare il 35% dopo due anni dalla nascita del primo figlio. Lo studio marca anche la correlazione tra maternità e aumento di forme orarie più flessibili. Nella mancanza di forme di welfare che permettano di conciliare vita lavorativa e famiglia, la proporzione di lavoratrici dipendenti che hanno un figlio lavorando part-time è aumentata del 15% negli ultimi dieci anni, di pari passo con l'aumento del lavoro part-time femminile in Italia.
Infine, si legge, "la nascita di un figlio ha un impatto significativo e duraturo sulle scelte e le prospettive della madre, ma non su quelle del padre, aprendo un divario fra i percorsi lavorativi e i trend reddituali che non si colma nel tempo. Anche nel nostro paese -l'amara constatazione- fare un figlio riduce sensibilmente le probabilità di continuare a lavorare e le prospettive di carriera per chi continua, senza che vi sia un simile impatto per gli uomini".
Se le donne non lavorano e se per le madri le discriminazioni in ambito lavorativo si moltiplicano, sostiene l'Inps, si produce un'allarmante perdita in termini contributivi per le casse dello Stato. Uno stato di cose che rende palese anche l'ipocrisia di chi mette la difesa della "famiglia tradizionale" al centro di programmi elettorali, e che, anzichè trattare la disciminazione subìta dalle mamme come un problema culturale e strutturale, si limita ad inutili sostegni una tantum, come il Bonus Infanzia.
Oggi, nel giorno della festa della mamma, a fotografare il quadro, desolante, della condizione delle madri in Italia è un altro rapporto, quello redatto annualmente dalla onlus "Save The Children", dal nome piuttosto esplicativo " Le Equlibriste: la maternità in Italia". Sul solco già tracciato dal rapporto Inps, anche da quest'ultimo studio emerge come la poca propensione alla maternità sia da inscrivere nell'alveo di una generalizzata e diffusa violenza di genere, e sia causa principale del preoccupante invecchiamento che si registra in Italia.
Nei dati riportati dalla onlus, l'Italia occupa il primo posto nella classifica europea per anzianità delle donne al primo parto (31 anni contro una media europea di 29). Inoltre, dall'analisi economica, emerge come la maternità incida negativamente sulla condizione occupazionale delle donne. Il tasso di occupazione tra le donne di età compresa tra 25 e 49 anni, infatti, è strettamente correlato al genere, all'essere genitori o meno, e al numero di figli. "In questa fascia di età - si legge- risultano occupate il 70,8% delle donne senza figli rispetto all'83,6 % degli uomini senza figli" e tra i genitori " tra coloro con almeno un figlio risulta occupato il 55,2% delle madri rispetto all'88,5% dei padri". Lo squilibrio nei carichi familiari tra donne e uomini, risulta evidente anche nella correlazione tra il numero di figli e le percentuali di occupazione femminile, che passano "dal 62,2% (un solo figlio), al 52,6% (due figli) al 39,7% (tre o più figli)" e il confronto con la variazione nel tasso di occupazione dei padri "che passa dall' 89,2% (un solo figlio), all'89% (due figli) all'82,8% (tre o più figli)".
Infine, il dato che, forse, meglio palesa la condizione di equilibriste cui sono costrette le donne madri: il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva. Tradotto, la difficoltà a conciliare vita lavorativa e familiare costringe sempre più donne in Italia a restare fuori dal mondo del lavoro.
Un quadro desolante che evidenzia la necessità di un'inversione di tendenza. Se non si praticano politiche a sostegno di una genitorialità condivisa e se non si garantiscono tutele in ambito lavorativo, a perderci sono tutti, non solo le donne.