C'è un film che non ho visto, sul quale non mi sono informato, del quale non voglio sentir parlare. Perché è un film che devo ancora vedere, ma aspetto le circostanze giuste. In particolar modo, è necessario che riapra il cinema Massimo: perché il film in questione è “Gli amici del bar Margherita”, in programmazione al Massimo il 6 Aprile del 2009, la cui locandina occhieggia ingiallendo giorno dopo giorno ormai da quasi cinque anni dalla sua vetrinetta sul Corso. Spero che quando il cinema riaprirà tutti gli aquilani lo vadano a vedere, mi immagino una tre giorni di proiezioni continue, per chiudere un conto lasciato aperto troppo a lungo.
Quella del Cinema all'Aquila è una storia bellissima di amore ricambiato. Tralasciamo, per stavolta, tutto quanto riguarda il “fare” cinema, che merita un capitolo a parte e magari la narrazione di qualcuno più tecnico di me. Da non tecnico (essere incompetente praticamente in ogni materia è stato il requisito chiave richiesto per avere questa rubrica) vorrei invece ripercorrere quella storia semplice, poetica e, in fondo, molto cinematografica del rapporto tra i grandi schermi di questa città e i suoi abitanti, un rapporto che ha attraversato i decenni e formato generazioni intere alla passione per la settima arte.
Tra le prime cose che ricordo di questa città ci sono le sue quattro sale di proiezione: l'Olimpia, il Massimo, il Rex e l'Imperiale. I cinema aquilani davano notizia di sé da due vetrine, che poi divennero quattro, disposte sotto i portici del Corso e dalle quali si apprendeva la programmazione corrente all'ultimo minuto. C'era anzi una vera e propria attesa per l'omino che le veniva a cambiare, aprendo scenari per la serata incipiente.
Ho ricordi piuttosto vaghi dell'Olimpia, ricordo molto meglio il Rex con le sue sfere gialle di insegna e il bar accanto, che tra l'altro è ancora lì. Una disposizione un po' strana, dato che dal bar si accedeva al cinema saltando la biglietteria, e un tacito gentlement agreement tra la gestione e gli avventori permetteva di andare a consumare al bar durante gli intervalli, rientrando in buon ordine. Ovviamente una nutrita schiera di portoghesi approfittava della situazione per unirsi alla ressa degli spettatori rientranti dal tamarindo dell'intervallo e scroccare in questo modo il secondo tempo, usanza che favorì il diffondersi di una categoria di cinefili low-cost specializzati nei finali dei film.
Il Massimo era un po' la sala dei grandi numeri, e anche per la sua posizione all'ingresso del centro svolgeva un po' la mansione del salotto buono cinematografico. I portici su cui si affacciava si trasformavano dopo ogni proiezione in una specie di cineforum spontaneo, dove capannelli di liceali in trip da critica dotta si accapigliavano su Allen o Moretti prima di essere sopraffatti dal rigore delle serate invernali e cercare rifugio al Blue Funk o al Sedano Allegro per un punch al mandarino.
L'Imperiale era il mio cinema. Lo è diventato da quando, negli anni Ottanta, cominciò la rassegna di Cinema Incontro, sicuramente uno degli eventi culturali ad aver riscosso il maggior successo nella storia della città. Alzi la mano chi ha quarant'anni e non ha avuto almeno una volta tra le mani quella preziosa tessera che garantiva venticinque biglietti per altrettante visioni d'essai. Proiezioni alle quali, in condizioni normali, noi giovanissimi del tempo non ci saremmo mai sottoposti, ma al grido del “quasi gratis” e spinti anche dal fenomeno di costume che ne nacque ci lasciammo sedurre. E settimana dopo settimana, visione dopo visione, da quella rassegna sono nati tanti appassionati, magari poco tecnici, ma almeno consapevoli che c'è un mondo oltre il cinepanettone.
Il Cinema Incontro sarebbe stato nulla senza le sue schede informative. Erano fogli stampati fronte-retro, distribuiti all'ingresso dell'Imperiale, che riportavano informazioni sul film, il cast, la trama e una bella sinossi della critica. Le schede informative divisero il pubblico di Cinema Incontro in due grandi categorie: gli Informati e gli Inconsapevoli. I primi leggevano la scheda appena arrivati per avere pronte tutte le possibili chiavi di lettura del film. I secondi, ai quali appartenevo, per nessuna ragione al mondo avrebbero voluto il minimo spoiler (che al tempo ancora non si chiamava così) sulla proiezione, partendo dal presupposto che essendo il cinema essenzialmente magia non c'era motivo di rovinarla per una visione più preparata. Noialtri Inconsapevoli conservavamo gelosamente la scheda informativa per tutta la proiezione, resistendo al desiderio a volte insostenibile di sbirciare qualcosa in anteprima come dei piccoli Alfieri legati alle nostre seggiole, e ingaggiando duelli rusticani con gli Informati più scorretti che si lanciavano in anticipazioni non richieste ad alta voce.
Il Cinema Incontro ci poneva inoltre davanti a fondamentali scelte di sopravvivenza. Per chi frequentava lo spettacolo dell'ora di cena si ponevano tre scelte.
a) Cenare alle sette, vedere il film, tentare di sopravvivvere ai crampi della fame fino all'ora della nanna;
b) Andare al cinema “non mangiati”, vedere il film tra borborigmi e dilaniante saudade gastronomica con grosso detrimento per l'attenzione alla trama, cenare alle undici e dormire agitati;
c) Passare dalla rosticceria di Stefania prima del film, fare scorta di calzoni e supplì e mangiare durante il film godendoselo appieno.
Io appartenevo ovviamente al gruppo “c” ed è inutile sottolineare come il nostro comportamento non elegantissimo creasse problemi non da poco ai digiuni del gruppo “b”, le cui fila infatti si andarono nel tempo assottigliando.
L'offerta di cinema di autore si arricchì anche con il cinema Don Bosco, anello di congiunzione tra sala cinematografica e cineforum, che lanciò un'altra rassegna di prime visioni molto frequentate.
All'inizio degli anni novanta cominciò la stagione dei multisala. Come tutti i grandi eventi sprovincializzanti di questa città, anche questo venne accolto con ingiustificato cieco ottimismo. La possibilità di assistere alle proiezioni, al Multisala Garden di Monticchio e poi al Movieplex di Pettino, seduti su comode poltrone con portabicchieri in cui incastrare i nostri popcorn salati ci fece sentire finalmente degli spettatori metropolitani, perchè a Roma o a Milano erano anni che le sale cinematografiche erano fatte così. Inutile dire che, come in un film mal scritto, le sale d'essai cominciarono a soffrire l'impossibile concorrenza, e il terremoto le colse in una fase di crisi acuta che aveva già portato alle prime chiusure.
Nel doposisma si sono moltiplicati i cineforum. All'Asilo Occupato, nella sala in cui campeggia un bellissimo murale dedicato a Monicelli, si sono svolte e si svolgono ancora molte proiezioni che difficilmente vedrete in una sala con aria condizionata e che vi consiglio di tenere sott'occhio. Iniziative simili si sono tenute e si tengono anche al Teatro Nobel per la Pace e al Mu.sp.a.c. C'è tutto un fiorire di voglia di grande schermo anche oltre il 3D e le trasposizioni di Tolkien che affiora qua e là per il cratere e che tiene vivo il legame speciale che questa città ha con la celluloide. Anzi, il cinema d'essai ha anche una base al centro dell'Impero: l'ormai mitica sala sette del Movieplex, dedicata appunto al cinema non di cassetta, dove i cinefili di tutte le età si riuniscono come frammassoni per prime visioni che non interessano il grandissimo pubblico.
Ci sono stato di recente, per “Il paradiso degli orchi”. Seduto con i miei nachos in quella saletta gremita di appassionati mi sono sentito dopo tanto tempo come all'Imperiale, dove al minimo movimento di un signore in terza fila tutte le seggiole di legno scricchiolavano all'unisono come un solo enorme organismo. All'inizio della proiezione mi è sembrato che il tempo tornasse indietro, a quelle sere fredde al centro con la neve fuori e Kurosawa sullo schermo. E all'improvviso, come in un film, qualcuno ha aperto un cartoccio in un posto dell'ultima fila, inondando la sala con l'odore intenso e oleoso del fritto. Sembrava proprio un calzone di Stefania. Che scena perfetta.
Dissolvenza in nero.
Fine.