Domenica, 05 Aprile 2020 22:01

"Le luci riaccendono la memoria e custodiscono il senso del futuro"

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Ci sono tanti livelli di complessità in un lutto. Lo stiamo imparando tutti, in questi giorni.

Ci sono infiniti livelli di complessità dentro un lutto traumatico, inatteso, improvviso. O prematuro, assolutamente inadeguato rispetto alla fase di ciclo di vita in cui una vittima (e una famiglia) si trovino.

Ci sono livelli di complessità nelle morti violente, in quelle che rendano impossibile il recupero di un cadavere, nelle situazioni che non consentano la vista del proprio congiunto, in quelle che rendano -de facto- inattuabile la sistemazione di un corpo e la restituzione di quella dignità che, talvolta, la morte toglie: la possibilità di indossare un vestito, infilare un paio di scarpe ai piedi, ricevere una carezza di commiato.

E ancora, hanno un senso l’ostensione della salma ricomposta, l’abbraccio ai congiunti e tra congiunti, le parole di un prete o di un imam per chi crede, una melodia o una canzone amata che suonino in sottofondo, l’affissione di un manifesto o anche solo la deposizione di un fiore sopra ad una bara.

Insomma, la messa in atto di tutti quei rituali di accompagnamento al trapasso che mitighino il dolore di un distacco e che lo rendano, gradualmente e nel tempo, accettabile per chi lo subisce.

Quando il numero delle morti all’interno di un evento unico (terremoto, calamità naturali in genere) o in un intervallo di tempo ristretto ad opera di una medesima concausa (come nel caso di una pandemia) è elevato, ai livelli di complessità individuali, si uniscono, sommano e variamente intrecciano anche quelli della collettività che con quelle morti, con quegli stessi processi di perdita e lutto, con quei distacchi, si trova, in un modo o nell’altro, a fare i conti.

La drammaticità degli eventi occorsi il 6 aprile 2009, a L’Aquila, compromise la ritualità dei lutti, andando ad incidere in processi di elaborazione individuale e collettiva della perdita che il trauma, già di per sé, avrebbe reso difficili: non di certo impossibili ma complicati.

Lo scrivo in corsivo perché è un termine tecnico il cui contrario, in questo caso, non è semplice (perché nessuna elaborazione del lutto lo è) bensì naturale: ci sono delle fasi che si susseguono, alternano, rincorrono, nel lutto. E, soltanto alla fine di processi in realtà mai definitivamente conclusi, si riesce a fare pace con il vuoto della perdita, a trovare un senso al non-sense dei maxi traumi, a dare forme al dolore, a fornire risposte a domande che continuano ad arrivare alla mente e un ordine al caos emotivo e al disordine che sono interni ma anche esterni, nelle situazioni che stiamo prendendo in esame.

È possibile. Si possono elaborare i distacchi e i traumi poiché la risposta sta già nell’essere sopravvissuti. Dovrei cambiare lavoro, se non fosse così.

Eppure. È una cornice particolarissima quella in cui cade l’undicesimo anniversario del terremoto dell’Aquila, una cornice diversa ma tanto simile a quella della notte -quest’anno corrisponde anche il giorno della settimana- in cui alcuni di noi furono divisi per sempre. È una notte che, di nuovo, ci lascia vuoti di abbracci che allora rimasero a mezz’aria, spezzati come le travi di quelle strutture che accartocciandosi coprirono di polvere e sassi la gran parte di noi. Una notte in cui si cercava luce senza trovare conforto al buio. Una notte in cui si voleva uscire di casa, senza poterlo fare.

È una notte -quella tra il 5 e il 6 aprile a L’Aquila- che abbiamo imparato a ritualizzare e che, in tanti, sentiamo il bisogno di condividere, stringendoci in una fiaccolata che, dai più giovani ai più vecchi ci vede essere comunità. A parlare con le persone e a leggere quanto in molti sentono il bisogno di scrivere e raccontare, ho l’impressione che quei passi condivisi per le vie di una città che continua a cambiare sotto i nostri stessi piedi, assumano un significato profondissimo, divenendo metaforico legame tra il prima e il poi, divenendo corpo che integra quelle parti di noi che l’evento traumatico collettivo ha mandato in frantumi.

Non è solo un dirsi reciproco “ci sono” ma è un dire a se stessi “ci sono (ancora)”, sono sopravvissuto, per l’appunto. Per qualcuno, la condivisione di questo momento collettivo coincide con un contenimento di angoscia e dolore interni, in qualche caso anche sensi di colpa, che proprio nella fiaccolata notturna e nella sua organizzazione hanno trovato negli anni senso, spazio, conforto e pace. Abbracci e luce. Aria e lacrime.

Sono lente le elaborazioni collettive dei maxi-traumi, lunghissimi i tempi individuali di elaborazione psichica di alcuni contenuti, tanto più se non ci si lascia aiutare.

Sono giorni pesanti, per tutti. Giorni in cui il ritrovarsi ad affrontare una pandemia per la quale eravamo nel complesso impreparati, come nazione e come individui, ha messo in una condizione generale di insicurezza, poiché esposti ad un agente di contagio invisibile su cui si hanno minime possibilità di controllo, un agente di contagio che potrebbe portare ciascuno di noi e le persone a noi care alla morte. E si ha paura di morire soli come pure di essere nuovamente esposti al rischio di un lutto traumatico. Andranno cercate risposte, significati, senso, andrà dato un ordine interno anche a tutto questo, quando finirà.

Come aquilani siamo di certo affaticati ma anche carichi di risorse. Il terremoto ci ha insegnato a cercare di continuo strade alternative rispetto a quelle che non potevamo percorrere perché magari, nel frattempo, era sorta un’impalcatura che prima non c’era, era stata chiusa una strada di accesso inizialmente aperta, stavano abbattendo un palazzo su una delle uniche due arterie stradali rimaste percorribili. Persino dentro al cimitero, abbiamo imparato a cercare percorsi alternativi, come a dire che se un ostacolo non lo puoi affrontare magari puoi imparare ad aggirarlo, chissà.

Una luce ha squarciato il buio, ieri sera a L’Aquila. Erano le prove per l’accensione di stasera. Un’accensione simbolica che andrà a sostituire i nostri passi e le luci delle nostre fiaccole.

Una scia luminosa -che ha il cuore in Piazza Duomo- si è elevata e si eleverà anche stanotte verso il cielo: sovrasta le luci dei lampioni, supera in un gioco di ideali prospettive anche il Gran Sasso innevato, sul cui abbraccio possiamo contare davvero sempre. E spacca a metà la città e anche il cielo, verso cui tende, nel bellissimo scatto che mi hanno concesso di utilizzare. Sta tutto qui: la terra, il cielo, il passato, il presente.

Il buio. La luce. Quella delle candele che stasera in molti accenderemo, in ricordo di chi non c’è più. Ma ci sono anche delle luci più piccole, disseminate tutte intorno, sono quelle che riempiono di vita le stesse case in cui siamo isolati e che oggi ci custodiscono.

Sta in quelle luci più piccoline tutte intorno il senso profondo di una collettività. Il senso di un futuro.

* Ilaria Carosi è psicologa e psicoterapeuta.

Ultima modifica il Domenica, 05 Aprile 2020 22:25

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