Martedì, 16 Febbraio 2021 18:27

Abruzzo: la variante inglese fa aumentare i casi. Valenti: "Rischio serio"

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Crescono ancora i casi di positività al covid-19 in Abruzzo e, in particolare, nell'area metropolitana di Pescara dove dilaga la variante inglese, a cui - secondo le ultime stime del laboratorio di Genetica molecolare dell'Università di Chieti - è riconducibile il 65% dei contagi, percentuale in aumento rispetto ai giorni scorsi e tra le più alte d'Italia. 

Stando agli ultimi dati elaborati dal ricercatore Riccardo Persio, se in Italia - salvo qualche eccezione - per ora l'epidemia continua la sua fase lentamente discendente, "in Abruzzo la curva è nettamente in controtendenza. La figura 1 - spiega Persio - evidenzia questa dicotomia: è infatti dall'ultima settimana di gennaio che l'incidenza abruzzese è via via, sempre più decisamente, al di sopra della media nazionale".

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A cosa è dovuto tutto questo? "La figura 2 ci aiuta a comprenderlo nel dettaglio: la provincia di Pescara ha raggiunto i 437 casi settimanali ogni 100mila abitanti, al penultimo posto tra le provincie italiane; la provincia di Chieti, nonostante l'incidenza piuttosto alta, si conferma 97esima su 107 e, soprattutto, non fa registrare per ora un incremento deciso del numero dei casi. Le altre province abruzzesi - L'Aquila 47esima e Teramo 54esima - confermano un'incidenza piuttosto bassa, anche se l'aquilano ha fatto registrare un aumento di 20 casi ogni 100mila abitanti in questa settimana (circa il 25% del dato di martedì scorso). Per ora la situazione a L'Aquila sembra essere sotto controllo, anche se a livello ospedaliero la regione sta iniziando a risentire in modo piuttosto serio del fabbisogno di cure più approfondite da parte dell'utenza proveniente dalla costa".

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La comunità scientifica è piuttosto preoccupata, "non si può nascondere questo dato di fatto" riconosce l'epidemiologo Marco Valenti; "la variate nota come inglese, tecnicamente B.1.1.7., a giudizio dell'Oms ha un più elevato rischio di mortalità in caso di infezione e una più elevata trasmissibilità nella popolazione generale; siamo arrivati a percentuali di B.1.1.7., sul totale delle infenzioni, molto alte e presumibilmente arriveremo all'80-85% in breve tempo".

Non solo.

Si è abbassata sensibilmente l'età media dei ricoverati con sintomatologie serie. "Alcuni studi inglesi, di recente pubblicati su Lancet, documentano in modo inequivocabile che esiste una maggiore incidenza della variante inglese anche nelle età più giovani a differenza di ciò che avevamo riscontrato nella prima ondata. Quello di cui non si ha ancora sufficiente evidenza è se la copertura anticorpale da vaccino o da pregressa infezione sia strumento sufficiente ad affrontare il virus in caso di esposizione: sulla variante inglese sembrerebbe sufficiente, e questa è una buona notizia. Sulla variante brasiliana, però, sembra che ci sia un rischio maggiore, nel senso che gli anticorpi precedentemente acquisiti potrebbero essere non adeguati al controllo della variante. Tuttavia, ancora non ci sono evidenze sufficienti per dare un giudizio definitivo".

D'altra parte, "è chiaro che tutti i virus tendono nel tempo a mutare dal punto di vista della propria composizione di superficie per adattarsi alle esigenze ambientali; è un fatto fisiologico, non si tratta di una novità: accade per la maggior parte dei virus e delle infezioni conosciute. Il fenomeno tende ad estinguersi, nel tempo, nel momento in cui si sviluppa una immunità sufficiente su scala di popolazione tale da diminuire l'efficacia della trasmissione del virus. Il punto critico è incrementare il livello di copertura anticorpale della popolazione attraverso le vaccinazioni e verificare che le varianti siano comunque aggredite dagli anticorpi. In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che nel momento in cui è stata avviata la produzione di un vaccino su una certa filiera, produrre un vaccino per le varianti, come accade con l'influenza di anno in anno, diventa un'operazione meno complicata di quanto non sia l'introduzione in prima battuta di un nuovo vaccino".

Tenendo conto che il virus è un fenomeno su scala di popolazione rispetto al quale possiamo auspicare diventi un fenomeno ciclico annuale e non ad impatto costante, "abbiamo sufficienti garanzie che riusciremo a controllarlo con una efficace strategia vaccinale".

Intanto, però, c'è una importante pressione della maggior parte degli epidemiologi italiani sulla necessità di un lockdown generalizzato. "In effetti, il rischio comincia a diventare serio" ribadisce Valenti; "nell'esperienza dell'epidemia, a partire dai dati raccolti inizialmente in Lombardia, si evidenzia questo: si identifica uno o più focolai ad altissimo tasso d'incidenza, la velocità con cui si hanno nuovi casi su una popolazione dinamica in un certo tempo. Di solito, nel momento in cui c'è un focolaio importante - in questo caso, l'intera area metropolitana di Chieti-Pescara - il rischio diventa nel tempo via via più alto non solo per le aree adiacenti ma per l'intero territorio nazionale".

Valenti è convinto che dovremo affrontare altri 2 o 3 mesi critici, almeno, fino alla stagione estiva: "è noto che il virus, nel periodo invernale e primaverile, ha una maggiore capacità di trasmissione. In questo momento, il dibattito è serrato perché, nel complesso, si registra una tendenziale diminuzione rispetto ad un picco su scala nazionale avvenuto due settimane fa: tuttavia, l'incremento della variante inglese determina dei rischi. Personalmente, però, sarei per il mantenimento di un'organizzazione del lockdown che sia tempestiva e veloce ma su aree limitate; lockdown generali non necessariamente determinano in modo rapido un decremento della curva del contagio. E' possibile agire localmente".

 

Ultima modifica il Martedì, 16 Febbraio 2021 23:38

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