Era il marzo 2015: a conclusione di un lungo consiglio comunale, l'assise approvò in via definitiva la delibera sulle aree a vincolo decaduto, le cosiddette aree bianche, già votata un anno prima ma tornata in aula a seguito della presentazione di osservazioni e controdeduzioni.
Parliamo di una variante al Piano regolatore generale per disciplinare le aree assoggettate a vincoli decaduti.
L'indice di edificabilità, uguale per tutti, venne stabilito in 0,08 metri cubi per ogni metro quadro di terreno; la superficie minima per ottenere l'edificabilità venne fissata ad almeno mille e 500 metri quadrati.
La norma riconobbe la possibilità, ai fini dell'edificabilità, di sommare più aree.
In cambio di tale facoltà, attraverso il meccanismo della perequazione, i proprietari avrebbero dovuto garantire la contestuale cessione, a titolo gratuito, delle restanti porzioni di area all'amministrazione, che, a sua volta, le avrebbe destinate al soddisfacimento degli standard urbanistici.
Il provvedimento passò con 15 voti favorevoli dell'allora maggioranza di centrosinistra e l'astensione dei civici Ettore Di Cesare e Vincenzo Vittorini che garantirono il numero legale.
D'altra parte, il problema dei vincoli decaduti si trascinava da anni: si era arrivati a circa 150 commissariamenti, su ricorso di cittadini che, stante l'inerzia della amministrazioni, chiedevano venisse certicifato il decadimento del vincolo, con esborsi di centinaia di migliaia di euro che il Comune aveva dovuto affrontare per pagare i commissari ad acta nominati dal Tar. Un problema, però, si pose sin da allora: i commissari ad acta, fino a quel momento, avevano stabilito indici di edificabilità sensibilmente più alti di quelli previsti dalla delibera che non aveva potere retroattivo.
C'è il rischio di ricorsi, si disse.
Ebbene, sono passati 6 anni e il Consiglio di Stato, su sollecitazione della Presidenza della Repubblica - svela il quotidiano Il Centro - ha dato parere favorevole sul ricorso di una cittadina che chiedeva l'annullamento della delibera del consiglio comunale.
Il ricorso è stato accolto "nei limiti dell'interesse della parte ricorrente": significa che ha validità nel solo caso specifico; è chiaro, però, che rischia di aprire una voragine, con possibilità di ricorsi di altri cittadini: a quel punto, il Tar non potrebbe che attenersi al decreto della Presidenza della Repubblica.
I motivi del ricorso, curato dagli avvocati Donatella Boccabella e Fausto Corti, vanno accolti - si legge nel parere dei giudici - "poiché la minima capacità edificatoria riconosciuta sull'area della ricorrente, con un indice di utilizzazione territoriale di 8 mq ogni 100 da concentrare come superficie fondiaria nel 35% della superficie territoriale, lasciando il restante 65% per le opere di urbanizzazione da cedere al Comune da parte del proprietario proponente, supera, a giudizio del Collegio, il limite oltre il quale la misura urbanistica trasmoda in un'espropriazione sostanziale, senza indennizzo, poiché riduce le facoltà edificatorie oltre il nucleo minimo che trova tutela nell'articolo 42 della Costituzione, secondo i princìpi e le norme del testo unico sulle espropriazioni".
E ancora: "È fondata anche la censura di sostanziale sviamento della funzione, poiché, in definitiva, emerge come il Comune, scaduti i vincoli espropriativi originariamente imposti sulle aree, abbia inteso, mediante l'atipico strumento della variante perequativa qui in discussione, conseguire l'obiettivo di acquisire le aree destinate a servizi pubblici evitando i costi degli indennizzi espropriativi, in tal modo, come criticamente rimarcato dalla ricorrente, eludendo l'obbligo di espropriare a titolo oneroso le aree necessarie alla realizzazione di impianti pubblici (parcheggi, verde pubblico, scuole, chiese, caserme) che verrebbero in questo modo acquisite gratuitamente al patrimonio comunale sotto forma di cessioni volontarie".