Giulio Andreotti è morto oggi alle 12 e 25 nella sua abitazione romana. Lo hanno reso noto i suoi familiari. Aveva compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso. I funerali del senatore a vita, scomparso oggi, si svolgeranno, a quanto si apprende, domani pomeriggio a Roma.
Presidente del Consiglio per 7 volte, senatore a vita, ha ricoperto numerosi incarichi di governo. La sua carriera è iniziata già alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando al seguito di Alcide De Gasperi diventa membro della Costituente nel 1946. Porta con sè i segreti della Repubblica.
Il suo nome resta legato ai rapporti Stato-mafia e ad uno dei periodi più bui della storia italiana: la fine degli anni '70, il terrorismo, il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse. Una storia, quella del terzo governo Andreotti del 1976, ricordata ed evocata, nelle ultime settimane, dal presidente della Repubblica. Ricorda, e molto, almeno a livello politico, quanto sta accadendo oggi. "Ci volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà", ha detto Napolitano. Una soluzione simile a quella trovata con il governo guidato da Enrico Letta.
Il 7 gennaio 1976, il Partito Socialista aveva ritirato il sostegno al governo Moro, che cercava un’apertura nei confronti del Pci di Berlinguer. Un mese dopo la DC formò un nuovo governo, guidato ancora da Moro, tra le polemiche sollevate dalle indiscrezioni su presunti finanziamenti americani ad Andreotti e Donat Cattin. Teneva banco, inoltre, lo “scandalo Lockheed”, con l’accusa ad alcuni politici italiani di aver ricevuto tangenti per acquistare aerei da trasporto militari. L’esecutivo non durò molto e Moro si dimise. Nel frattempo, l’economia era in una situazione pessima.
Si arrivò quindi alla campagna elettorale di primavera con la sensazione diffusa che il Partito Comunista potesse vincere. Le "prove generali" c’erano state con le elezioni amministrative del 15-16 giugno 1975, circa un anno prima: alle amministrative e alle regionali il PCI aveva ottenuto un ottimo risultato con il 33 per cento dei voti. La Democrazia Cristiana aveva accusato il colpo: Amintore Fanfani aveva lasciato la segreteria ma il partito di governo sembrava in quel periodo sempre più ostaggio delle lotte tra correnti. Un po’ come il Partito Democratico, oggi.
Oltre alla situazione politica, un altro elemento importante della situazione era il terrorismo politico. L’8 giugno del 1976, solo dodici giorni prima delle elezioni, il procuratore generale della Corte d’Appello di Genova Francesco Coco venne ucciso insieme alla sua scorta. La rivendicazione dalle Brigate Rosse arrivò con un comunicato letto nell’aula del tribunale di Torino dai leader in carcere, durante un’udienza del processo alle Br.
In questo clima teso e complicato si arrivò alle elezioni politiche, il 20 giugno 1976. Lo spoglio diede al PCI il suo massimo risultato storico alle politiche, con il 34,4 per cento. Il "sorpasso" però non ci fu, perché la Democrazia Cristiana prese il 38,7 per cento. Era passato il messaggio che il partito fosse l’unico argine possibile al "pericolo rosso". Il terzo partito di quelle elezioni fu il Partito Socialista Italiano, che però si fermò al 9,6 per cento. Senza una maggioranza parlamentare chiara si aprì quindi il problema di come formare il governo. Un po’ come nelle settimane scorse.
Gli Stati Uniti e il mondo imprenditoriale italiano, con a capo Gianni Agnelli, non volevano in alcun modo il Partito Comunista al governo. Così fu: nelle trattative politiche che seguirono, si decise comunque di spartire le massime cariche istituzionali dello Stato tra i diversi partiti in base al loro peso elettorale, con la partecipazione del PCI: il democristiano Fanfani diventò presidente del Senato, il comunista Pietro Ingrao, invece, presidente della Camera. Quanto al governo, ci si accordò su un governo monocolore (con tutti i ministri dello stesso partito) della Democrazia Cristiana, guidato per la terza volta da Giulio Andreotti.
Quel governo, che sarebbe durato fino al febbraio 1978, passò alla storia come il “governo della non sfiducia”: "ho proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati", disse Andreotti nel discorso alla Camera. La ottenne, con tantissime astensioni. Per un anno e mezzo, quindi, il governo Andreotti contrattò tutti i principali provvedimenti con il PCI, in una continua opera di mediazione che aveva per protagonisti Giulio Andreotti da una parte e Enrico Berlinguer dall’altra. Il PCI teneva a freno il sindacato e le possibili proteste sociali più estese: con questo sostegno sempre un po’ reticente, il governo Andreotti poté approvare alcuni provvedimenti impopolari per cercare di mettere in ordine i conti pubblici.
Iniziava, così, la stagione cupa e violenta del Settantasette. A metà gennaio del 1978 si aprì la crisi di governo, che durò circa due mesi e si concluse nel marzo 1978 con un altro governo Andreotti, il quarto. Questa volta, però, i comunisti avevano accettato di votare a favore del governo (un altro monocolore democristiano). L’Andreotti IV si costituì l’11 marzo 1978: cinque giorni dopo, il 16 marzo, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della sua scorta, poche ore prima della presentazione del nuovo esecutivo in Parlamento.