Mercoledì, 13 Aprile 2016 22:17

Referendum 'No Triv', NewsTown voterà 'Si': ecco le ragioni del voto

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Domenica 17 aprile: è il giorno del referendum 'anti trivelle' - così è stato definito - promosso, per la prima volta nella storia, da 9 Consigli regionali.

Qual è il quesito referendario? Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?

Il referendum, dunque, non riguarda le trivellazioni sulla terraferma, e non rigurada quelle in mare, oltre la soglia delle 12 miglia dalla costa (22.2 km). Non riguarda neppure nuove concessioni entro le 12 miglia, vietate dalle recenti norme introdotte in Legge di Stabilità. A farla semplice, si chiede di cancellare la sola norma che consente alle società petrolifere che abbiano titoli abilitativi già rilasciati di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine senza limiti di tempo. Norma con cui il Governo Renzi ha inteso mettere le concessioni già autorizzate al riparo dal divieto di poter estrarre idrocarburi entro il limite dei 22.2 km. Seppure le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, infatti, le ricerche e le attività petrolifere già in corso - al momento - non hanno più scadenza certa, potendo contare su proroghe fino ad esaurimento del giacimento.

Dovesse vincere il Si, la norma verrebbe cancellata e le compagnie petrolifere, alla scadenza delle concessioni, non potrebbero più rinnovare la licenza, anche se i giacimenti non fossero esauriti.

Non si fermerebbe, però, l'attività di estrazione di petrolio in Italia, come si è tentato di far credere. In Italia, le piattaforme presenti entro le 12 miglia, e dunque oggetto del quesito referendario, sono 92, di cui 48 eroganti. Di queste, 39 estraggono gas e 9 petrolio. E' bene ricordare che soltanto l’8.7% del greggio estratto in Italia è in mare. Gran parte della ricerca di idrocarburi avviene, infatti, su terraferma: su 107 concessioni autorizzate, solo 23 sono su fondale marino. Si cancellerebbe semplicemente una norma che per il costituzionalista Enzo Di Salvatore - estensore del quesito referendario - è "palesemente illegittima in quanto una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza".

La legge - ha spiegato in questi giorni Di Salvatore - si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), che in materia di ricerca e di estrazione di idrocarburi "prescrive che 'la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa' e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, 'se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione'".

Sono a rischio migliaia di posti di lavori, si è detto e scritto. Anche questo assunto, è semplicemente falso, e strumentale. Vincesse il Sì, infatti, e lo ribadiamo, le concessioni resterebbero valide fino a scadenza, come già previsto al 31 dicembre 2015, prima che entrasse in vigore la contestata norma inserita in Legge di Stabilità. E di tali concessioni, una scade fra due anni, altre cinque fra 5 anni, tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. Questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro per effetto del referendum. Inoltre, 9 piattaforme non sono interessate dal quesito perché la richiesta di proroga è stata fatta prima dell’entrata in vigore della legge di stabilità e, verosimilmente, verranno concesse anche in caso di vittoria del Sì.

Al di là del merito posto dal quesito, il referendum assume anche altri significati. Innanzitutto di politica energetica: il voto ha un enorme valore simbolico, se è vero che la vittoria del Sì darebbe un segnale al governo nell'incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili. Anche perché, le quantità di gas e petrolio estratte entro le 12 miglia non sono affatto significative. Come scrive Dario Faccini su Aspo Italia (Associazione per lo studio del piccolo per il petrolio), basandosi sui dati ufficiali del Ministero dello Sviluppo Economico, se il referendum passasse rinunceremmo al 17.6% della produzione nazionale di gas, pari al 2.1% dei consumi nazionali nel 2014, e al 9.1% della produzione nazionale di petrolio, pari allo 0.8% dei consumi nel 2014. Semmai dovessimo importare qualcosa per soddisfare i bisogni interni, rinunciando ai giacimenti nell'Adriatico, lo importeremmo per una percentuale equivalente e, quindi, irrisoria.

Ciò che viene estratto oggi, tra l'altro, appartiene al 100% a chi lo estrae. E dunque il fabbisogno energetico nazionale non c'entra niente, perché comprare ciò che viene estratto a 12 miglia marine da noi, piuttosto che dalla Libia o dalla Russia, è esattamente la stessa cosa. Bisogna comprare, comunque.

Che poi, l'Italia dipende ancora dai combustibili fossili, ma potrebbe farne a meno. Nel 2015, infatti, secondo l'ultimo rapporto di GSE (Gestore Servizi Energetici, responsabile del monitoraggio statistico dello sviluppo delle fonti rinnovabili in Italia) a livello nazionale la stima preliminare del consumo totale di energia (che include tutti i vettori energetici) proveniente da fonti rinnovabili è stata del 17,3%, + 4,3% rispetto a cinque anni prima. E stando ai dati del Ministero dello Sviluppo Economico, nel 2014 si è registrata una riduzione del consumo interno lordo di petrolio dell’1,8% e di gas naturale dell’11,6% rispetto al 2013. In generale, il consumo di energia in Italia è diminuito del 3,8%.

Come mostrano i dati sul consumo interno lordo di energia elettrica, raccolti dalla società Terna, operatore di reti per la trasmissione dell'energia elettrica, nel 2013 la quota percentuale di energia elettrica prodotta da rinnovabili è stata del 33,9%. Ed è salita al 37,5% nel 2014. Mentre l'energia elettrica ricavata da fonti tradizionali è scesa dal 53,3 al 48,8%. Questi numeri dimostrano che il contributo delle fonti rinnovabili alla produzione nazionale di energia elettrica eguaglia (e supera) ormai quello del gas naturale (sceso dal 33% del 2013 al 29,1% nel 2014).

C'è la questione ambientale, inoltre. Le trivellazioni andrebbero fermate per tutelare i nostri mari dai rischi legati alle tecniche di ricerca (la cosiddetta tecnica air-gun) ed estrazione di idrocarburi, che possono incidere sulla fauna marina, elevando il livello di stress o provocando danni, dal rischio di subsidenza (cioè l'abbassamento della superficie del suolo, causato da fenomeni naturali o indotto dall’attività dell’uomo), dai danni provocati da eventuali incidenti. Un incidente petrolifero nell’Adriatico sarebbe un disastro per tutto il Mediterraneo, si legge in uno studio finanziato dall'Ue per il progetto CoCoNet. In caso di imprevisto in fase estrattiva o in fase di trasporto, a causa dell’andamento delle correnti marine, l'entità monetaria del danno che verrebbe a crearsi è, secondo gli esperti, "incalcolabile". I danni non sarebbero limitati al litorale italiano, ma causerebbero un disastro nell’intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali drammatico.

Infine, il referendum ha un obiettivo chiaramente politico. Mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto: qualora non si raggiungesse il quorum o prevalesse il No, infatti, il Governo potrebbe fare un passo indietro e tornare a far estrarre gas e petrolio ovunque, anche entro le 12 miglia. Inoltre, in caso di fallimento del referendum, le compagnie titolari di licenze potrebbero decidere di raddoppiare le piattaforme legate alle concessioni loro assegnate.

Non solo. Nonostante molte delle 9 Regioni promotrici del referendum siano a guida Pd, il governo e la maggioranza dem sono ostili al voto - hanno persino invitato all'astensione, in aperta avversione alla Costituzione - e per questo hanno fissato la data della consultazione alla prima domenica utile, così che se ne parlasse il meno possibile. Hanno evitato inoltre di accorpare il voto referendario con le amministrative, spendendo il doppio, 300 milioni di euro, anziché 150 milioni. Vincesse il Sì, il messaggio arriverebbe, forte e chiaro, anche a Palazzo Chigi.

 

*Alcuni dati e informazioni sono tratti dall'approfondimento pubblicato su 'Valigia Blu'

Ultima modifica il Mercoledì, 13 Aprile 2016 22:41

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