Anche se molti ritengono Cujo – pubblicato da Stephen King nel 1981 – un libro dell’orrore, non è così; Cujo è piuttosto una spietata analisi dei meccanismi della vita familiare e del loro progressivo disfacimento.
Le famiglie in questione sono quella del piccolo Tad Trenton – lui, la madre Donna, il padre Vic – e quella di Brett Camber, il ragazzino proprietario di Cujo (un enorme e pacifico San Bernardo), il cui padre meccanico tiene in un fienile l’officina. King intreccia le vicende delle due famiglie cucendo una robustissima tela narrativa che solo la ferocia squarcerà in un misto di suspence, angoscia, pietà e malvagità. Cujo è libro straziante, e soprattutto per chi ha figli piccoli s’eleva a cupo monito poiché suggerisce che i nostri bimbi – e la loro sorte – dipendono dal nostro comportamento in maniera assai più complessa e sottile di quel che ci piace pensare.
La storia si svolge lungo l’arco di pochi incandescenti giorni estivi presso l’immaginaria cittadina di Castle Rock. Tad, quattro anni, sente un’oscura presenza nell’armadio della camera da letto ma i genitori non gli danno retta; Donna ha un amante; Vic è preso dal lavoro. Dall’altra parte della cittadina, la madre di Brett Camber vuole sottrarre il figlio alla nefasta influenza paterna e ritiene che l’occasione giusta sia un viaggio da sola con lui, che può permettersi dopo la vincita d’una discreta somma alla lotteria. Intanto Cujo, morso da un pipistrello, contrae la rabbia. Dopo un accumulo lento e inesorabile, le energie negative a lungo represse si scatenano di pari passo col morbo che divora il cervello del cane. King è bravo a strisciare nella psiche sconvolta di Cujo ed è altrettanto abile nel suggerire che Cujo non sia solo un cane ammalato ma qualcosa di più, qualcosa che ha forse a che vedere con un’entità maligna e sovrannaturale, con un Fato che si traveste da caos ma ci vede benissimo.
Per una serie di circostanze davvero diaboliche, Donna e il piccolo Tad si trovano assediati dal cane nella loro auto rotta, presso l’isolata radura davanti all’officina dei Camber. Nessuno può immaginare che si trovino lì: non il meccanico che Cujo ha sbudellato; non la moglie e il figlio del meccanico partiti per il loro viaggio; e tantomeno Vic, andato fuori per lavoro e poi, una volta tornato, roso dall’idea fissa che moglie e figlio siano stati rapiti dall’amante di lei (il quale, respinto da Donna, aveva devastato la loro casa vuota).
Il duello è fra Donna e Cujo. In palio c’è la vita d’entrambi e del piccolo Tad. Madre e bambino trascorrono nell’auto ore torride, senz’acqua e senza aprire i finestrini poiché la bestia è pronta a balzare dentro; la porta della veranda dei Camber dista otto passi dallo sportello ma Donna non sa decidersi a raggiungerla: e se la trovasse chiusa e fosse sbranata dal cane sotto gli occhi del figlioletto? (alla fine risulterà che la porta era aperta) A lungo Donna e il cane si scrutano e lei – rievocando gli episodi salienti della propria vita – si convince che il cane non sia solo un animale affetto dalla rabbia, bensì un’arcana prova che la stava attendendo da sempre. Quando infine Donna si decide ad affrontare la bestia con una consunta mazza da baseball abbandonata nel prato, e quando infine il marito capisce dove si trovano moglie e figlio e accorre, per Tad oramai disidratato è tardi. Lui e Cujo – ucciso da Donna in versione dea vendicatrice – moriranno pressoché nello stesso istante: suprema beffa o crudele espiazione?
Non amo parlare di morale a proposito dei romanzi, quando li leggo non ne cerco una e non credo che Cujo ne abbia una; non credo cioè che King volesse punire Donna per il tradimento o Vic per l’arrivismo o Joe Camber per l’insensibilità o Charity Camber per l’egoismo; credo piuttosto che l’autore, coordinando su più piani la tragedia, si limiti a suggerire l’ipotesi che tutto, in una maniera che ci sfugge e che pure è vicina, risulti connesso, e che le nostre azioni hanno effetti diramati e i nostri errori un prezzo, sempre un prezzo.
Il libro termina sulla radura piena di sole, laddove le mani del bimbo “giacevano sull’erba come se non avessero nemmeno peso abbastanza da schiacciarne gli steli con il dorso”, laddove la bella e giovane mamma borghese è divenuta una cavernicola che sbatacchia una mazza da baseball su un’irriconoscibile poltiglia, e laddove il padre ambizioso se ne sta seduto con lo sguardo fisso alla strada. Gli unici innocenti sono il piccolo Tad e il cane che ne ha provocato l’atroce morte. Ecco infatti come King congeda Cujo: “Vale forse la pena di ricordare che aveva sempre fatto il possibile per essere un bravo cane. Aveva cercato di fare tutte le cose che il suo UOMO e la sua DONNA e soprattutto il suo BAMBINO gli avevano chiesto di fare o si erano aspettati da lui. Sarebbe morto per loro, se fosse stato necessario. Non aveva mai voluto uccidere nessuno. Gli era successo qualcosa, era stato colpito dal destino, forse, o solo da una malattia degenerativa del sistema nervoso che si chiama idrofobia. Non aveva potuto scegliere liberamente.”
Ps: dal libro è stato tratto un mediocre film; nel film il piccolo Tad non muore. In proposito King, padre di tre figli, ha affermato che per lui Tad DOVEVA morire; la storia, con le sue oscure risonanze, lo esigeva. Era necessario.
Enrico Macioci