Sabato, 28 Settembre 2013 23:41

Addio a Carlo Castellaneta, scrittore simbolo di Milano che raccontò L'Aquila

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E’ morto a Palmanova, in provincia di Udine, lo scrittore Carlo Castellaneta. Aveva 83 anni.
Narratore e giornalista, aveva legato il suo nome soprattutto alla città di Milano, dove era nato nel 1930. Il suo romanzo d’esordio era stato, nel 1958, Viaggio col padre.
In carriera Castellaneta ha pubblicato un quarantina di titoli. Uno di questi, Una città per due. Dodici città da visitare e da amare - una raccolta di reportages letterari scritti durante un viaggio compiuto alla scoperta delle bellezze di alcune piccole città di provincia italiane - contiene delle belle pagine dedicate a L'Aquila. Ve le riproponiamo qui di seguito. Lo scrittore parla del suo arrivo e del suo breve soggiorno in città immaginando di raccontare tutto - le sue impressioni, le tante nozioni apprese sul campo - a una donna.


Carlo Castellaneta, L'Aquila, "Una Citta' per Due" Rizzoli, 1981


Dall'autostrada, quando ho avvistato Tagliacozzo in cima alla rupe, in uno dei paesaggi più selvaggi d'Italia, avrei voluto che ci fossi anche tu, perché da solo ho citato ad alta voce il celebre verso di Dante: «Biondo era, e bello, e di gentile aspetto».

Infatti il nipote di Manfredi, ultimo re svevo, fu sbaragliato qui dagli Angioini, vicino a Tagliacozzo, fatto prigioniero e decapitato, ponendo così fine al suo sogno di riconquistare il Regno di Napoli.

Dirai: ma sono passati sette secoli! È vero, però ieri sera, passeggiando sul corso all'ora dello a struscio», tra piazza del Duomo e i «quattro cantoni», mi sono ricordato di nuovo di Corradino, perché in mezzo alla folla dei giovani c'erano occhi cerulei e capelli chiari, e poi perché Napoli è rimasta per l'Aquila, come ai tempi di Federico II, il modello culturale, il punto di riferimento, molto più della vicina Roma. «Più lontano che Abruzzi» dice il Boccaccio.

Anche gli aquilani ammettono che la mancanza di collegamenti (l'autostrada di montagna Roma-L'Aquila è aperta da pochi anni) ha molto contribuito all'isolamento del capoluogo, e in parte anche alla formazione stessa del carattere cittadino, orgoglioso e riservato. Qui, se parli con la gente, ti accorgi subito che aquilanità vuoi dire misura, vuoi dire mancanza di slanci e di entusiasmi, ma soprattutto discrezione e grande correttezza.

Persino il barocco è misurato, come la facciata di Palazzo Ardinghelli, nella piazza più alta della città che è Santa Maria Paganica. Se venissero tolte le auto dal centro storico, sull'esempio dell'Umbria e della Toscana, si vedrebbero meglio la piazza e la chiesa. Ma ora dimenticavo di dirti che ho preso alloggio in un buon albergo vicino alla Fontana delle 99 Cannelle.

Immagino che sarai stupita di questa bizzarra definizione. Devi sapere che il 99 rappresenta per l'Aquila una specie di numero magico. La campana della Torre Civica batte dopo il tramonto 99 rintocchi, come all'epoca in cui si chiudevano le porte della città due ore dopo il calar del sole; 99 erano le chiese e le fontane, 99 erano i castelli dalla cui unione L'Aquila è nata.

L'imperatore Federico ne voleva raccogliere cento, ma un castello non aderì. Per questo, quando nel 1272 fu costruita a ridosso delle mura una grande fontana, nel punto dove sgorgava una sorgente, anche gli zampilli furono novantanove. Dai mascheroni in pietra, levigati dal tempo, esce uno scroscio uniforme che rende il luogo vagamente irreale. La Fontana sembra una fossa sacrificale, con le pareti decorate a scacchi bianchi e rosa, come se il suo costruttore, Tancredi da Pentima, avesse visto Costantinopoli, certe fontane attigue alle moschee, come usano i musulmani per i lavacri, o nei serragli del Topkapi.

I turisti (adesso anche gli italiani stanno scoprendo le bellezze dell'Aquila) accorrono numerosi alle 99 Cannelle. Tu sicuramente ti saresti messa a contarle, scoprendo subito che il numero non corrisponde. Infatti, secondo la leggenda, chi le conta è costretto a ricontarle, ottenendo ogni volta una cifra differente, e se ci si mette a contarle in due non si ha mai lo stesso numero. Come dire che chi dubita viene punito.

Certo, più conosco e giro la provincia, e più ammiro questa Italia che non cede, fedele a se stessa, alla propria immagine antica, ai concerti mattutini di campane, alle chiacchiere sulle soglie delle botteghe, che mescola indifferentemente il moresco e il barocco, facciate littorie come il Banco di Napoli sul corso Vittorio Emanuele e lampadari umbertini sotto i portici.

Ogni mattina in piazza Duomo c'è mercato: coperte tessute, sedie di vimini, tappeti, polli fumiganti sul girarrosto, paiuoli, scaldini, e ferri da cialde per fare saporite « ferratelle ». Non ho comprato niente, ma mi sono ricordato quel verso di Prévert: «Sono andato al mercato della ferraglia », e anch'io non ti ho trovata in quel mare di piatti sbalzati e boccali e campanacci.

Chissà perché ero venuto a L'Aquila convinto di riscoprire il Sud. Invece, a parte la sua collocazione geografica nell'Italia centrale, scarsi sono i segni di meridionalità: forse i balconcini di ferro, il barbiere appisolato sulla poltrona nella controra, qualche cordata di biancheria sulla Costa Masciarelli, la voce di una radio dietro le persiane accostate, nel vicolo della Sfinge.

La verità è che qui è montagna (non ti ho ancora detto che la città sorge a 721 metri d'altezza) e il Gran Sasso che domina la conca non è soltanto la vetta più alta dell'Appennino, ma una specie di severa sentinella, di gendarme dei costumi e di quel decoro di cui gli aquilani van giustamente fieri, più che del loro Teatro Stabile o della Società dei Concerti.

Il Corno Grande svetta all'improvviso quando meno te l'aspetti: a una curva della strada o sopra i tetti o in fondo a una prospettiva urbana, spesso innevato fino a maggio. Il Gran Sasso è il padre dell'Aquila, ed è il marito della Maiella. Perché la vocazione alpina ormai è divenuta canto, tradizione, leggenda.

Ha scritto Piovene che qui c'è «una luce già di montagna ». A me pare piuttosto di un altro pianeta, talmente è diversa da ogni altra città di montagna, da Aosta come da Sondrio, tanto arcano è il suo isolamento, tanto mistico è il suo silenzio. Come fai a pensare che, non lontano dall'Aquila, nel Parco nazionale d'Abruzzo, scorrazzano liberi l'orso e il lupo e il camoscio, mentre stai ammirando la facciata della basilica di Collemaggio?

Questa terra mi ricorda l'Umbria per la solennità dei paesaggi, per la quantità di chiese, e per lo spirito religioso che è rimasto nelle pietre. E poi Napoli, magari la Napoli di trent'anni fa, per il gusto accademico, il vanto ancora vivo della laurea, la fierezza delle sue libere università. Insomma un rispetto della cultura che molti altri capoluoghi non possiedono più.

Dicono a Pescara, la città rivale sempre in lotta per la supremazia nella Regione, che gli aquilani vivono del passato. E gli aquilani, orgogliosi, ribattono che Pescara non ha nemmeno quello.

Ma da dove viene il nome L'Aquila? dirai. Me lo sono chiesto anch'io. La risposta è di un cronista dell'epoca: « Siccome l'aquila è reìna de gl'altri uccelli, così la lor città havesse da esser capo di tutti quei popoli e genti del contorno».

Prima che il terremoto del 1703 distruggesse tanti monumenti, la città doveva essere ancora più bella. Ieri ho percorso a piedi il centro storico intorno alla via Fortebraccio. Al n. 23 della strada fu portato morente Braccio da Montone, capitano di ventura che invano aveva preso d'assedio l'Aquila. Ho visto dal basso la grande scalea che porta alla basilica di San Bernardino, una vera scenografia dentro il dedalo dei « vichi » medievali.

Poco più sotto le vie si inerpicano come sentieri verso la sommità, la Costa della Pinciara, la Costa Campana, scalinate bordate da ciuffi di verde, a sdruccioli, cioè scorciatoie, che diresti ritagliati da un paese alpestre, e invece qua c'è un portale quattrocentesco là una chiesetta gotica, qui un androne affrescato (come in Palazzo Romanelli) e lì bifore aristocratiche (come in Palazzo Alfieri) fino alla Porta Bazzano, una delle tre sopravvissute delle antiche mura.

Piacerebbe anche a te quest'Aquila minore da scoprire strada per strada, la chiesa di Santa Giusta con la sua fontana nella facciata, quest'Aquila di chiostri e di cortili, di piazzette immobili nella luce pomeridiana come quella dedicata a San Pietro di Coppito, di auto appollaiate negli esigui spazi, una lama di sole su un pozzo, su una cancellata, sul merletto che una ricamatrice esegue al tombolo, seduta all'aperto, il celebre merletto aquilano che si insegnava nei conventi.

Che cosa vuoi che ti porti da questo mio viaggio? Un pizzo o un piatto di ceramica? Un torrone, di quelli teneri al cioccolato? O un pizzico di rarissimo zafferano a fili?

Devi sapere che L'Aquila è la patria dello zafferano, che cresce abbondante alla Piana di Navelli, al punto che una volta ci si arricchivano i mercanti. Zafferano e lana erano le due grandi ricchezze, e molti di questi palazzi, prima che arrivassero i viceré di Spagna a soffocare ogni slancio, furono edificati da mercanti che amavano l'arte e le cose di buon gusto.

Persino i piccoli commercianti avevano case di una certa pretesa, e lo testimonia un cimelio architettonico che va sotto il nome di «Cancelle». Oggi all'interno si è installato un caffè con bigliardo, però non è difficile immaginare in quel susseguirsi di archi quattrocenteschi le «vetrine» dov'erano esposte le merci, e nelle finestre al piano di sopra le abitazioni.

È curioso che invece in piazza Duomo non vi siano edifici nobiliari, ma ho saputo che vi si tenevano le esecuzioni capitali, spettacolo da cui la gente per bene evidentemente rifuggiva. Ora gli aquilani, come tutti, non chiamano più grandi architetti per farsi costruire i palazzi, e anzi la parte nuova della città è piuttosto brutta. La gente vive del «terziario», come dice quel tuo amico sociologo, cioè di servizi e commerci, e la terra è stata abbandonata sebbene produca ancora ottimi vini bianchi e rosati.

A proposito, ieri ho pranzato al «Tre Marie», che è il miglior ristorante dell'Aquila. A te, che ami i locali tipici arredati con un certo stile, piacerebbero molto le due salette arredate con mobili abruzzesi e affrescate con pitture che ricordano il Michetti e la Figlia di Jorio. È un locale di gastronomia raffinata, e vi ho imparato che i famosi spaghetti alla chitarra (qui li chiamano maccheroni) sono un'invenzione regionale, anzi lo strumento per fare la pasta è proprio una specie di chitarrina metallica.

Adesso dirai se io sono venuto all'Aquila per lavorare oppure per divertirmi, visto che in questa lettera non ti parlo di lavoro. Il fatto è che città come queste fanno passare in secondo piano gli interessi quotidiani e le beghe d'affari, ti invitano semmai a prendere le distanze dalle cose, a guardare alla vita con più filosofia.

Ho passato quasi un'ora, e non mi succedeva da molto tempo, seduto alle sette di sera a un tavolino del bar Europa, sotto i portici, tutto solo, osservando la folla che passeggiava. E' uno spettacolo impressionante, e non so se vi sia in Italia un'altra città (forse a Perugia in corso Vannucci) dove giovani e non giovani si riversino con tanta allegria, l'autobus si fa largo a fatica in quel fiume di teste che sembrano uscite da uno stadio o in attesa di un comizio, e invece è gente che cammina solo per il piacere di incontrarsi, di vedere chi c'è, studenti, impiegati usciti dall'ufficio, madri con carrozzine, ragazze slanciate di sangue svevo, brune con occhi chiari angioini, sanniti in jeans dalle teste ricciute, tipi atletici di lottatori (qui il rugby ha molto seguito), tutti assieme, tutti mescolati, cittadini e alpini in libera uscita come per una grande festa, un esempio di vita municipale, un costume civile che tante altre città hanno perduto.

Proverbiale, mi dicono, è la bellezza delle donne aquilane. Poco più a nord, verso Rieti, nella terra dei Sabini, i Romani, che di donne se ne intendevano, andarono a effettuare il loro famoso «ratto» di fanciulle per popolare la nascente Roma.

Me ne sono ricordato visitando ad Amiternum, dieci chilometri fuori città, le rovine di un anfiteatro del I secolo dove si tenevano spettacoli di gladiatori e lotte di belve. Mi hanno portato a vederlo perché ammirassi una costruzione classica (Augusto la fece costruire, dicono, a imitazione del Colosseo), ma ho ammirato di più il paesaggio che fu patria di Sallustio, immerso nel silenzio della campagna.

Un altro illustre personaggio di questa terra è papa Celestino V, sì proprio lui, quello del «gran rifiuto ». È sepolto a Collemaggio, nella basilica che egli stesso fondò quando era un semplice frate eremita nel 1287 col nome di Pietro Morrone. Me lo sono ricordato perché San Celestino è rimasto l'unico pontefice che abbia spontaneamente rinunciato al potere.

Basta, non voglio farti una lezione di storia. Avrai capito che l'Aquila mi ha intrigato più di quanto pensassi, anche perché le sorprese, quando si comincia a ispezionare una città, non finiscono mai. Ad esempio non mi sarei aspettato, al n. 7 di via Mazzini, di trovare una lapide che ricorda che il patriota vi fu ospite di un Carbonaro; e neppure che il bellissimo Castello Cinquecentesco nascondesse in uno dei suoi quattro bastioni un perfetto auditorium per concerti di musica classica.

Alle spalle della fortezza, edificata dagli Spagnoli nel timore di possibili insurrezioni cittadine, c'è un boschetto che chiamano ai pinucci», dove le coppie di innamorati vanno a scambiarsi tenerezze. Inutile aggiungere che avrei voluto anch'io averti accanto.

Sebbene il castello sia costruito sulla sommità del colle, gli aquilani lo onorano di quotidiane passeggiate, bambini giocano nel parco, anziani signori discutono sulle panchine, di modo che la fortificazione non ha più niente di militaresco, anzi i colori bianco e ocra delle mura si fondono con quelli dei monti, col verde pallido dei pianori, col corno cinerino del Gran Sasso.

E le aquile? ho domandato. E vero che fino al XVI secolo erano mantenute a spese della comunità, come oggi si fa coi piccioni nelle piazze? Mi sarebbe piaciuto vederne una, scendendo dal bosco di Monteluco, dove c'è la sede della Facoltà di Ingegneria, ma mi rendo conto che le mie sono fantasie letterarie, allo stesso modo in cui speravo di incontrare i «cafoni », i contadini poveri della Marsica descritti da Silone nei suoi romanzi, oppure i pastorelli dipinti da un altro abruzzese di qui, il pittore Remo Brindisi.

Sono immagini di un'altra epoca, perché il progresso ormai arriva dovunque, però la nostalgia ti rimane. Sai cosa ho pensato? Che potresti raggiungermi in treno sabato prossimo. Ho voglia di andare con te a vedere l'Abruzzo più remoto, il paese di Scanno che dicono sia ancora intatto, le vecchie in costume coi loro stupendi orecchini, e poi Rivisondoli, Pescocostanzo, i borghi antichi in alta montagna... Cosa ne dici? Aspetto la tua risposta.
 

Ultima modifica il Domenica, 29 Settembre 2013 22:09

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