"Praticamente Innocua - Viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma" è giunto al sesto appuntamento. In questa domenica autunnale andremo a visitare la piazza principale della città: Piazza Duomo. Luogo di incontro di diverse generazioni, classi sociali e persino stili architettonici. Tutta da scoprire, in ogni caso.
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“Va a vede' se stengo 'n'piazza”, si dice all'Aquila. E' una di quelle espressioni del nostro vernacolo che ne denotano la rara potenza espressiva. Normalmente l'interlocutore, la prima volta che si sente rivolgere la strana richiesta (il che comporta che o ha sei anni o non è aquilano, vittime predestinate sono gli studenti fuori sede e i parenti del Nord), ci pensa un secondo prima di capire. E quel secondo è una specie di iniziazione, tanto che alla fine, quando realizza e la sua espressione cambia, possiamo guardarlo con complicità come a dire: “Bene, mo' sei aquilano pure tu. Usa bene questa battuta”.
Ma le cose cambiano anche nella città dell'Immota manet, e chissà se le prossime generazioni useranno con lo stesso senso questa modo di dire.
Piazza Duomo è la principale piazza aquilana, e mi sono sempre chiesto come mai sia, a mio parere insindacabile, tra le meno belle che abbiamo. Sarà che questa città non ha mai avuto una particolare predilezione per l'apparire, ma quello che in teoria doveva essere il suo salotto buono è in effetti un'accozzaglia di stili variamente interconnessi, dall'Ottocento quasi savoiardo del palazzo del circolo aquilano all'improbabile finto-rinascimentale del palazzo di Nardis (mi scuserete se uso la toponomastica di strada), all'allucinante posizionamento del palazzo delle Poste, che copre quella meraviglia delle Cancelle che in qualsiasi altro luogo al mondo sarebbero un museo con ingresso a pagamento e qui sono state prima spostate e poi sepolte dal cemento pre e post-sismico. Il Duomo, che occupa gran parte di piedipiazza (locuzione autoctona che, come il suo antipodico capopiazza, è superfluo spiegare) è forse l'unica costruzione del Cratere che ha ricevuto un miglioramento estetico dal crollo, che ha finalmente permesso alla luce solare di violarne il transetto, un luogo precedentemente tra i più bui che io possa ricordare. La chiesa delle Anime Sante, in parte di nuovo visitabile, con la sua bellezza sepolcrale e gotica non certo nello stile quanto nella sensibilità, è l'ennesimo castone eccessivo e fuori luogo di un prospetto architettonico che non trova mai un equilibrio.
Questa piazza sembra dire: noi siamo così. Diversi, belli e brutti, vecchi e giovani, ricchi e poveri e su questa piazza che è casa nostra tutti abbiamo il diritto di starci. Il salotto buono, quello per gli ospiti, ce lo andiamo a fare in un'altra piazza, perchè qui ci viviamo e qui non vogliamo nasconderci. Fino al giorno del terremoto, questo posto era un groviglio di traffico e di vita. Un luogo selvaggiamente vissuto, che nel mercato mattutino trovava la sua completa realizzazione, trasfigurando in un suk appenninico. Le bancarelle di frutta occupavano tutto lo spazio intervallate da porchette, rame, vimini, tendaggi, scarpe, ferramenta, il tutto pervaso da un brulicare di varia umanità che si salutava a volumi inauditi per sovrastare le offerte di mele a un euro, sotto il planare pigro dei piccioni.
Di tutta quella attività resta flebile traccia oggi nei due bar, il Nurzia e il Florida, che eroicamente tengono la posizione e rendono vivo questo fragile spazio. Forse non si troverà un buon Martini, ma il caffè o un gelato qui hanno un altro sapore.
Che questa piazza sia la vera casa degli aquilani lo si è visto col terremoto. Quando tutti i riferimenti sono crollati, quando frotte di tutori hanno cercato di metterci tranquilli nelle nostre C.a.s.e. o nei nostri alberghi, a guardare bromuro dalle nostre tv dalle quali andava in onda il racconto epico del miracolo che stava salvando le nostre vite, quando la rassicurante climatizzazione dei centri commerciali ci ha blandito invitandoci a passeggiare in tondo tra le vetrine di non luoghi pianeggianti, sottraendoci alle brutture di un “fuori” che era meglio dimenticare, proprio allora la Piazza, che la maiuscola qui se la merita tutta, è tornata ad essere il cuore di una comunità.
Gente diversa per estrazione, cultura e appartenenza ha cominciato a riunirsi qui, a portare sedie e a parlare insieme, finchè il Tendone, maiuscolo anche lui, ha fatto la sua comparsa, dando un tetto provvisorio a questa antica ma nuovissima comunità.
Vi ho già detto che da un po' il Martini mi fa virare sul malinconico, quindi cerco di non lasciarmi trasportare sul terreno minato dei buoni sentimenti. Ma non posso fare a meno di dire che quello che si è visto in questa Piazza, con gente che cercava di immaginare il da farsi, in quattro o in quattrocento non aveva importanza purchè si facesse, è stato il momento civico più alto che si sia visto in città da secoli. Chi parlava e chi ascoltava, chi urlava e chi ci “metteva una pezza” anche con ago e filo, chi si inventava manifestazioni e chi invitava politici a parlare salvo poi fargli il mazzo alla prima cazzata, qui una comunità si è tenuta viva e si è fatta dei nuovi anticorpi. Non c'è stata unità, ma chissenefrega, il mondo è un posto complesso in cui è più importante essere vivi che essere d'accordo.
Oggi quel momento goffamente eroico è passato per trasfigurare in altro, la gente ha trovato altre case in cui riunirsi e discutere, ma siamo tutti figli di quel momento speciale. Un giorno forse il Gran Caffè riaprirà su questa Piazza, e magari potrò tornare ad affacciarmi dalla stanza al secondo piano su una nevicata che cade in una sera d'inverno.
Quello che vedrò dietro il vetro appannato della mia coppa Martini saranno le ombre confuse di quei giorni di vita e orgoglio che non dimenticherò mai.
Vacci mo', a vede' se stengo 'n'piazza.