Lunar Park di Bret Easton Ellis (2005), nonostante i notevoli difetti, è uno dei più importanti romanzi contemporanei per almeno due motivi:
- rappresenta un cardine su cui ruota il genere assai in voga dell’autofiction (basti pensare, solo in Italia, a Roberto Saviano e al vincitore dell’ultimo Premio Strega, Walter Siti);
- è un libro in cui Ellis chiede scusa.
Quanto al primo punto. Ellis sottopone il Bret uomo e il Bret scrittore a una disamina spietata e allucinata, giocando con la propria identità e coi meccanismi narrativi fino al rischio di bruciarsi. “Sei la perfetta caricatura di te stesso”, la frase con cui la storia inizia, è già la sintesi e al contempo l’epilogo del dramma, il cortocircuito che racchiude tutto, ove tutto implode. Il resto – che non è poco – si risolve in chiave orrorifico/fantastica, tra case infestate, personaggi letterari che entrano di forza nella realtà, pupazzi assassini e spettri paterni che tornano a bussare (il richiamo all’Amleto è evidente, basti pensare al nome della casa del protagonista, Elsinore Lane). Ma in tale sprofondamento metafisico il vero modello di Ellis è nientemeno che Stephen King, in particolare tre lavori di King: La metà oscura, Finestra segreta giardino segreto e Shining. Ellis, che ha confessato di nutrire ammirazione per King sin da piccolo, parodia il grande modello assumendo una postura talvolta ironica talvolta (credo) seria; ma mentre l’ironia spesso gli riesce la serietà appare ridicola – e se non di serietà si trattasse ma nuovamente d’ironia, sarebbe un’ironia fallimentare proprio perché sembra seria. Insomma, Ellis sfida King sul suo terreno prediletto e ne esce nettamente battuto. Le scene spaventose non sono credibili – un effetto almeno in parte voluto – ma soprattutto non sono organiche al testo, bensì appendici montate su di una struttura filosofica (assente in King) che sviluppa temi quali il rapporto fra padri e figli, il consumismo, il materialismo, l’alienazione, le droghe e la tutela dei minori in un mondo sempre più folle e iperveloce.
Il secondo punto è il pezzo forte del libro; che io sappia infatti nessun autore si è mai scusato per ciò che ha scritto. In Lunar Park invece Bret Easton Ellis domanda venia per aver prodotto American Psycho; pur ammettendo gl’innumerevoli filtri narrativi che un autore complesso come Ellis avrà usato resta forte l’impressione, direi quasi l’odore del pentimento, dell’espiazione. American Psycho è un libro spaventoso; Ellis lo pubblicò nel 1991 a ventisette anni, e il libro gli diede una fama planetaria, estremamente equivoca e al di là del suo controllo; in altre parole il gioco gli sfuggì di mano. Lunar Park, ecco l’aspetto più impressionante, parrebbe suggerire il seguente teorema: se scrivi una cosa orrenda e malvagia essa contaminerà la tua esistenza, rendendoti forse un uomo peggiore e quasi certamente un uomo più infelice. Altri scrittori prima di Ellis sono scesi negli abissi: pensiamo al Macbeth o al Re Lear di Shakespeare, pensiamo ai Demoni o ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij, pensiamo alla Metamorfosi o al Processo di Kafka, solo per citarne alcuni. Nessuno di loro però aveva osato tanta gratuità nel descrivere il Male quanta ne sfoggia Ellis in American Psycho. Patrick Bateman, il protagonista yuppie nonché efferato assassino, è un nulla, un vuoto in azione, una macchina di morte così glamour da risultare più narcotizzante che repellente, più alienante che toccante. Non c’è pathos, ma solo una violenza piatta e idiota che nessuna grandezza e nessun sacrificio potranno né vorranno riscattare. L’autore di Lunar Park, che ha quindici anni in più, tutto ciò lo sa, e lo confessa, e piange. Piange per sé e per la cattiveria che funesta la nostra vita. Piange per il figlio infelice che è stato e per tutti i figli infelici che sono gli uomini, che siamo noi. Sono questo dispiacere e questa nuova umiltà a fargli scrivere, proprio alle ultime righe del libro: “Così, se per caso vedeste mio figlio, salutatelo da parte mia, ditegli di fare il bravo, ditegli che lo penso, che so che sta vegliando su di me dal luogo in cui si trova, e di non preoccuparsi: perché mi troverà sempre qui, quando vorrà, proprio qui, le braccia pronte ad accoglierlo, tra le pagine, dietro la copertina, alla fine di Lunar Park.” Bentornato fra noi, Bret.
di Enrico Macioci