"Praticamente Innocua - Viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma" è giunto all'ottavo appuntamento. In questa tappa visiteremo quello che, fino al terremoto, era considerato il "quadrato magico" del commercio aquilano, vale a dire la zona compresa tra Piazza Palazzo e Piazza Duomo. Da non perdere.
Teofilo Patini, Pietro Marrelli, Camillo Benso Conte di Cavour. Il primo, pittore ottocentesco, ha lasciato all'Aquila tracce significative del suo passaggio artistico che un po' tutti conosciamo. Il secondo, meno noto alla massa, vanta una biografia incredibile che farebbe impallidire gli attivisti politici di oggi e i personaggi di molti film holliwoodiani; dentro e fuori dalle galere patrie e straniere, riduzioni al confino, deportazioni, incontri e cospirazioni con i grandi personaggi del tempo, compreso Mazzini che ospitò all'Aquila, il tutto come coerente conseguenza di una passione politica profonda e inesorabile che è bello e sorprendente scoprire nel passato della propria città. Il terzo non ha bisogno di presentazioni particolari, e il suo legame con L'Aquila non va oltre quello dell'omaggio dovuto e non entusiastico al governo nazionale.
Se dovessimo riproporre questa triade centocinquant'anni dopo, potremmo pensare, per dire, ad Amleto Cencioni, 3e32 e Gianni Letta. Fatte le debite proporzioni, ovviamente. Soprattutto per quanto riguarda l'ultimo.
Che hanno in comune questi tre (i primi, sia chiaro), oltre al fatto di essere vissuti nel diciannovesimo secolo? Ben poco in realtà, se non il fatto che un arbitrio toponomastico ha assegnato i loro nomi a tre vie, o meglio vicoli, che attraversano il centro dell'Aquila tra piazza Palazzo e piazza Duomo, intersecando prima la marcata cesura di via Sallustio (il “Vicolaccio” per gli amici) e poi via Tre Marie.
Questa zona, chiusa in alto dai Portici, ha costituito, per un periodo di tempo che affonda le sue origini nel passato remoto della città ed è perdurato fin quasi ai giorni nostri, il quadrato magico del commercio aquilano di vecchia scuola, quello ancora non toccato dalla macumba omologatrice del franchising, quello del commercio di vicinato inconsapevole di esserlo, quello delle serrande abbassate alle sette perché anche i commercianti hanno una casa in cui tornare.
Un mondo a volte ruvido, in cui i legami avevano un senso e creavano cerchie difficili da penetrare. Entrare da “sconosciuti” in un negozio per guardare era atto considerato intollerabile ancora nei primi anni ottanta, e a volte per sottrarsi all'imbarazzo di un mancato acquisto bisognava simulare un malore. Il prezzo di un capo di abbigliamento o di un etto di prosciutto si definiva su un complesso algoritmo in cui confluivano la legge di mercato vera e propria e più articolate considerazioni di appartenenza (“quésso è cliente” contro “ma chi scì?”).
Ma negli ultimi decenni la competizione selvaggia della grande distribuzione e dei mercati geograficamente vicini avevano smussato queste caratteristiche meno gradevoli salvaguardando quel senso di comunità che attraversava questi vicoli brulicanti di vita nei quali nessuno era mai solo un cliente e meno che mai un estraneo.
Via Patini e via Marrelli condividevano uno strano destino: non si riusciva mai a distinguere cosa c'era in una da cosa c'era nell'altra. Una specie di incantesimo le avvolgeva sotto un'unica coltre, e spesso per fare mente locale bisognava riscriversi una personale toponomastica pratica.
Per esempio, per noi via Patini era “il vicolo di Stefania”, la rosticceria che tanta felicità ha profuso sui nostri pomeriggi di quindicenni affamati e, purtroppo, tanti chili ha lasciato a perenne ricordo intorno ai nostri fianchi di quarantenni imbolsiti.
Nessun problema invece ad individuare via Cavour. Soprattutto quando qualcuno pensò bene di aprirci l'omonimo locale. Se avessero aperto anche un pub Marrelli avremmo risolto i nostri problemi di orientamento, ma non è andata così.
Un intero microcosmo di esercizi commerciali caratterizzati da qualcosa di intrinsecamente speciale punteggiava quelle strade. Un elenco esaustivo non avrebbe senso (tra l'altro chi potrebbe giurare se quel negozietto era in via Patini o in via Marrelli?), ma ogni aquilano che ha vissuto quei posti avrà la propria top ten.
Io li vorrei nominare tutti, da Birdland dove la Musica si vendeva a fette di vinile e dove con diecimila lire in tasca meditavo se fosse più utile alla mia formazione musicale “Give'em enough rope” dei Clash o il primo disco di 'sti Nirvana che secondo me mo fanno il botto, al forno di via Patini e le sue file chilometriche, al Sette Nani dove si andava a vedere quanto avevi fatto alla schedina, a tutti i negozi di scarpe con le loro processioni di donne che tanti interrogativi mi hanno fatto porre sulla complessità dell'universo femminile, alle macellerie tutte uguali eppure tutte caratterizzate da una qualche peculiare caratteristica che le rendeva uniche.
E poi la costellazione dei piccoli alimentari che ti costringevano ad una infinita spesa itinerante, perché la frutta va presa a via Cavour ma le mozzarelle ce le hanno buone a via Patini (o via Marrelli...?), e poi i barbieri e le parrucchiere così splendidamente lontani dai saloni patinati con la tecno in sottofondo e ClassTv sugli schermi.
E poi Oddi, che sembrava uscito da un film di Miyazaki col suo rutilante eccesso di ninnoli, abat-jours, portaombrelli, quadri, vasi, statue di cani in terracotta, utensili di tutti i tipi. Nessuno avrebbe saputo descrivere Oddi, non ci riesco neanche io ovviamente, e la definizione di “emporio” gli andava stretta come può andar stretto a un carro armato il termine “automezzo”. Poi un giorno Oddi non c'era più, e al suo posto trovammo una banca.
Il barile di acciughe sotto sale di Romano è ormai un pezzo di storia di questa città, come lo è la pizza di Trippitelli o il cinema Imperiale. Le Tre Marie, che quando ero piccolo finirono addirittura nella pubblicità di un noto caffè, celavano storie di delizie culinarie e lontanissimo jet-set.
Che senso ha parlare, oggi che queste strade sono chiuse dalle transenne, di tutto questo? Per nostalgia? Forse, un po'. Per la speranza che tutto torni com'era dov'era? No. Scusate la crudezza, ma non sarà così.
Parlare di tutto questo ha senso perché non dobbiamo lasciare che si spezzi il filo della nostra memoria. Forse non riavremo più l'odore di quel calzolaio o le mele di quel negozietto. Ma riavremo i nostri luoghi e ci porteremo le nostre nuove esperienze. Ci riporteremo la nostra, nuova, comunità.
Magari i piccoli aquilani di oggi avranno ancora un po' da aspettare, ma tra qualche anno li rivedremo ancora darsi appuntamento per un panino in via Patini.
(... o era in via Marrelli?)
Si ringrazia Simona Iovane per la condivisione dei ricordi. Chi non ha buona testa abbia buone amiche