Nei mesi scorsi, la redazione di NewsTown ha tenuto un corso di giornalismo a ragazze e ragazzi del VB del Liceo delle Scienze Umane nell’ambito di un progetto d’alternanza scuola-lavoro curato dalla professoressa Roberta Morico.
Un’esperienza che abbiamo concluso con un lavoro finale, una riflessione sulla città a nove anni dal terremoto.
Ne è emerso uno spaccato piuttosto interessante, e preoccupante a dire il vero, che riteniamo utile – e doveroso – pubblicare, un grido d’allarme e d’attenzione di ragazze e ragazzi che, in questi giorni, stanno preparando gli esami di maturità, decidendo dove proseguire il loro corso di studi, dove costruire la loro personalità culturale e sociale. E sono in molti a voler lasciare L’Aquila: parliamo dei cittadini di domani, della linfa che dovrebbe restituire vitalità alla città.
“Oggi mi trovo nella mia scuola, quella ‘vera’, quella che mi ha accolto quando avevo 14 anni e si apriva davanti a me un nuovo percorso di studi, un nuovo orizzonte”, scrive Angelica Robimarga. “Fra pochi mesi se ne aprirà un altro ancora, il mondo universitario, e in questi cinque anni non siamo rimasti sempre in questo edificio. Ogni mattina vado a scuola a Colle Sapone nella sede dell'Itis che ormai da quasi due anni ci ospita. La nostra scuola sembrava sicura, eravamo certi di essere al sicuro, ma ci sbagliavamo. Abbiamo avuto un periodo travagliato, in particolare lo scorso anno, fatto di proteste, di trasferimenti in luoghi e orari differenti, vedevamo calare la notte dalle finestre della classe mentre venivamo interrogati o ascoltavamo la lezione.
La mia classe ha passato gli ultimi mesi di scuola nell'Aula Magna dove a maggio stavamo ancora con le stufette e le coperte e non riuscivamo più ad avere una normale didattica. Ogni giorno entravamo nell'Aula Magna intitolata "6 Aprile 2009" e ci chiedevamo perché non potessimo avere un'aula normale; la nostra era al piano superiore, transennata da nastri bianchi e rossi che delimitavano l'area”.
“Anche quest'anno è iniziato con un corteo di protesta – racconta Angelica - per farci notare ancora, per non far dimenticare alle istituzioni la nostra situazione: il Liceo Cotugno spezzato in cinque sedi senza più la normalità di una scuola, dovendosi adattare ad un nuovo luogo, nuove persone, nuovi ambienti, un po' com'è successo anche 9 anni fa”.
“I giovani aquilani, al tempo bambini, pensavano che dopo essere dovuti scappare da casa loro, allontanarsi dalla città, doversi adattare a nuove realtà e dover fare i conti ogni giorno con un ricordo doloroso avrebbero poi avuto una nuova città, rispettabile e di cui andare fieri, una nuova scuola dove poter avere opportunità e maturare esperienze come qualunque altro ragazzo, una nuova casa dove potersi stabilire e proseguire la propria vita. Sono passati 9 anni e i ragazzi non sanno dove vedersi, non trovano stimoli né eventi, non vivono il centro o la periferia come avrebbero voluto e la delusione e il malcontento è diffuso. Quando si arriva al quinto anno di Liceo si riflette, si fa un bilancio della propria vita, ci si consulta, si analizzano i propri desideri e il desiderio di molti ragazzi non è quello di rimanere in questa città. Molti miei coetanei andranno via, a costruirsi un futuro dove vengono offerte opportunità, condizioni adatte e favorevoli, vantaggi”.
“Il terremoto ha segnato un ‘prima’ e un ‘dopo’ nelle vite di ognuno di noi, adulto o bambino, aquilano o non – aggiunge Angelica - una nuova linea del tempo con al centro stampata la data del 6 Aprile 2009, e dopo tanta confusione, tanto disorientamento una situazione del genere dopo 9 anni soffoca e spinge ad andare via”.
Un altro spaccato di questi anni difficili, un pugno nello stomaco, l’ha messo nero su bianco uno studente del VB che preferisce restare anonimo. “Dove non c’ è nulla”, il titolo del suo articolo; “c’è una faccia di questa città che in pochi conoscono, non so nemmeno quanto sia giusto parlarne”, scrive. “Riguarda i ragazzi che oggi si trovano nella fascia d’età tra i 17 ed i 22 anni. Non riguarda proprio tutti, ma una parte di loro. Dopo il terremoto non c’era niente e nessuno a L’Aquila. Non avevamo punti di riferimento e d’incontro. Nessuno ci controllava, né adulti né forze dell’ordine. Dovevamo fare qualcosa e in una città dove non c’è niente usi la fantasia ed esplori. Abbiamo iniziato entrando nelle zone rosse, nelle strade oscure dove neanche i lampioni funzionavano, per vedere ciò che veniva nascosto. A poco a poco siamo entrati nelle case distrutte, non per rubare o per qualche motivo malevolo, solo per vedere, per curiosità.
Così le case di una città distrutta sono diventate i nostri ‘bar’, le nostre ‘biblioteche’, le nostre ‘case’. Tutto ciò che non poteva offrirci la città lo cercavamo: libri, diari, tavolini da ping pong, divani dove passare le giornate e così via. Però, come in ogni città degradata non può che arrivare la malavita”, aggiunge.
“E così, alcune case sono diventate centri di spaccio e dalla ricerca di passatempi si è passati alla ricerca di alcool; i più grandi hanno iniziato a rubare. Il veleno che si alimentava nella città si espandeva anche dentro di noi. Alcune delle persone che conoscevo a quei tempi ora sono tossici rinchiusi nelle loro case o depressi senza alcuna motivazione per vivere. Alcuni sono riusciti ad uscire dal tunnel della droga, io per fortuna non ci sono mai entrato. Con la ricostruzione avviata, questa realtà va sfumando, anche se c’è ancora qualcuno che ci convive. A salvare molti di noi è stato CaseMatte che ci ha dato la possibilità di uscire dalle macerie ed entrare in una realtà che ci ha aiutato a crescere. Ci sarebbe molto da dire sul terremoto ma questa è una verità nascosta che non so se è mai stata trattata. Fondamentalmente, siamo stati lo specchio della città in quel momento”.
Federica Pace ribadisce nel suo racconto come “non ci siano più centri di ritrovo se non i bar del centro commerciale. La ricostruzione va avanti molto lentamente e forse questo è uno dei problemi principali del nostro futuro. Noi ragazzi ci troviamo disorientati, non ci sono più punti di riferimento necessari per la crescita di ognuno di noi”.
“Noi del liceo Cotugno – prosegue Federica - ci siamo ritrovati fuori dalla nostra scuola perché considerata inagibile, senza una sede dove poter fare lezione. Questo ha aumentato il nostro malessere e la nostra voglia di scappare da una città che non offre un futuro certo. Tra qualche mese ci ritroveremo all’Università e, sentendo le varie opinioni dei miei coetanei, pochi se non nessuno desidera rimanere all’Aquila. Da una parte questo è comprensibile, andar via da questo contesto sociale potrebbe migliorare la vita di ognuno di noi; dall’altra parte, però, sono del parere che non si può abbandonare una città ferita, bisogna lottare per migliorare le proprie condizioni e per rimanere nella nostra città natìa. Personalmente, ho deciso di restare qui, almeno per qualche anno. Voglio vedere se L’Aquila può davvero rinascere come molti dicono. In caso contrario, se non dovessi percepire cambiamenti concreti, spero di avere l’opportunità di andarmene e costruire altrove il mio futuro”.
Dell’assenza di luoghi di ritrovo, “cui fare riferimento e cui appartenere”, hanno scritto anche Irene Giannetti, Alessia Federico e Ludovica Colaiuda che hanno firmato un pezzo a sei mani. “Ed è per questo – spiegano - che gran parte dei giovani sono scappati da questa realtà opprimente, proseguendo la loro vita e i loro studi altrove. Alcuni invece sono rimasti, vivendo, soprattutto negli ultimi tempi, situazioni di enorme disagio e scomodità, costretti ad andare a scuola il pomeriggio oppure a prendere l’autobus per raggiungere la palestra della propria scuola. A causa del disagio e della mancanza di luoghi di ritrovo, noi, come la maggior parte dei giovani che ad oggi abitano ancora a L’Aquila, pensiamo di proseguire, una volta finito il liceo, i nostri studi fuori una città che non ci appartiene e che non possiamo più definire ‘nostra’”.
Parole che dovrebbero far riflettere ciascuno di noi, pur considerando che, a 19 anni da compiere o appena compiuti, il desiderio di vivere altrove è condizione vissuta da tantissimi ragazzi, ovunque. A L’Aquila, però, “non ci sono luoghi in cui i giovani hanno la possibilità di andare a studiare, fare delle attività o anche solo per scambiarsi due parole, come ad esempio caffè letterari dove trascorrere del tempo leggendo un buon libro”.
Ragazze e ragazzi hanno riflettuto, nei loro lavori, anche sul senso della memoria e del ricordo e, in particolare, sul significato della fiaccolata del 6 aprile. “Questo senso di attaccamento ai ricordi credo sia un aspetto negativo, può portare i più giovani a pensare che ormai L'Aquila sia una città morta e a prospettare un futuro in altri luoghi”, scrive un’altra studentessa del Liceo delle Scienze Umane che preferisce non firmare il suo lavoro. “Invece, questa città ha ancora molto da offrire ai giovani: per esempio, nelle settimane scorse si è svolta una partita di rugby molto importante che ha coinvolto tantissimi giovani [il riferimento è al match del Pro14 tra Zebre e Dragons, ndr]: è in queste occasioni che ci si rende conto di come L'Aquila sia in realtà viva”.
“Mi dispiace molto vedere come la fiaccolata commemorativa organizzata ogni 6 aprile stia diventando ormai mero interesse di coloro che effettivamente hanno perso qualcuno”, aggiunge Domenico Miocchi; “ed è triste vedere come le nuove generazioni siano spesso indifferenti dinanzi ad una manifestazione così importante per la nostra città, come se la tragedia che ci ha colpito non fosse cosa loro”.
“Ad oggi – prosegue Domiziano Liberatore - il vero problema non è più, a mio parere, il sisma in sé, quanto piuttosto il ricordo. È come vedere un film per l'ennesima volta, ma ogni volta è come se fosse la prima, e fa sempre più male. Il ricordo e il tempo sono due fattori che condizionano molto la mente di ogni individuo. Si dovrebbe ricordare ogni anima persa tutti i giorni, ma ciò annienterebbe la possibilità di andare avanti, di ricominciare. Quindi, questo flashback ha per fortuna un potete invadente solo una volta l'anno”.