Domenica, 22 Dicembre 2013 12:13

Praticamente innocua - Viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma / 15: La stazione

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Quante sono le storie che hanno formato il nostro immaginario che hanno per protagonista un treno?

Fate mente locale. Anna Karenina inizia e finisce con, o meglio sotto, un treno, che con circolare pervicacia dapprima spiana un malcapitato operaio della ferrovia, che finisce i suoi giorni per dare sostanza agli espedienti letterari di Tolstoj, e poi nella settima parte del romanzo spegne la travagliata esistenza della protagonista, evento che non impedirà all'autore di deliziare i posteri con un'ottava parte. La storia del cinema praticamente comincia con il famoso filmato dei Lumière, e con l'Assalto al treno del 1903 si inaugura (o quasi) la gloriosa epopea del western, che poi sarà costellata di treni immortali.

Stazioni e locomotive sono protagoniste in infinite pellicole di ogni genere, dall'arrivo in Transilvania di Frankenstein junior alla scena degli schiaffi di Amici Miei, da Cassandra Crossing ad Assassinio sull'Orient Express, e potremmo andare avanti per pagine e pagine. E poi la musica, dallo Slow train coming del Menestrello alla Locomotiva gucciniana passando per centinaia di brani famosissimi. Insomma, il treno è un topos che incendia la fantasia e risveglia le Muse. Del resto chi non ha sognato una volta di saltare su un treno con la chitarra in spalla e un filo d'erba in bocca e lasciarsi trasportare verso l'ignoto, la libertà, una vita nuova?

Beh... Beh, se il treno in questione è la littorina a due carrozze che da quando sei nato vedi transitare a dieci all'ora al di là dei passaggi a livello di Sassa o Paganica, tra l'alto biastimare degli incolonnati fermi da quarti d'ora col motore a folle, è altamente improbabile che ti possa ispirare sogni di fuga. Se il treno lo hai conosciuto alla stazione dell'Aquila non sarà stato guardandolo allontanarsi verso terre sconosciute che ti sarà venuta voglia di avventura, perchè “terre sconosciute” nella fattispecie sarebbero Sulmona o Antrodoco. E non s'è mai letta in un romanzo per ragazzi una frase tipo “e saltò su, scalzo e col suo fagotto in spalla, si accovacciò sulla paglia, e si addormentò sognando il domani mentre il treno lo portava via, lontano, verso Antrodoco”. No, non suona proprio.

Se sei Aquilano per te la stazione non è un posto da cui si parte. E' solo un luogo in cui gente strana arriva, per motivi che fatichi a comprendere. Innanzitutto, sin da bambino hai imparato che alla stazione ci arrivano gli Altri. I non Aquilani. Quelli che, cresciuti e formati un po' più lontano di te dalle asperità appenniniche, conoscono un mondo di pianure, di dolci declivi soleggiati, di rettilinei. Gente che a casa sua si muove in bicicletta, per dire. Alieni. Gente che se deve venire all'Aquila da Roma pensa, in tutta naturalezza, che col treno ci metterà una quarantina di minuti e magari si rammarica che durante il breve viaggio non riuscirà a terminare la lettura del quotidiano. Tu lo sai che nel tempo di quel viaggio i malcapitati potrebbero leggere l'opera omnia di Fabio Volo, sempre che la cosa possa rivestire per loro (e per chiunque altro) la seppur minima attrattiva. E lo sai, ovviamente, non perchè tu sia mai andato a Roma in treno, ma dai racconti raccapriccianti di lontani parenti che hanno provato a venirti a trovare in passato. Gente che pensava di risparmiarsi venti minuti rispetto al viaggio in autobus e si è ritrovata nel paradiso dello scartamento ridotto a rimpiangersi la Transiberiana.

Quando andavi alla stazione, per l'unico motivo per il quale noi Aquilani ci andiamo da sempre, ossia il bar, studiavi le tipologie dei passeggeri che scendevano dai vagoni, e con gli anni hai delineato una serie di profili più o meno ricorrenti. Innanzitutto c'è lo studente. Il grosso viene da Sulmona, ma “il grosso” non deve indurre in errore, si contano sempre sulle dita di una mano. Lo studente arriva il lunedì mattina con valigioni spropositati ricolmi per lo più di derrate alimentari. Esce sul piazzale nel gelo dell'inverno aquilano e comincia ad arrancare trascinando quintali di polpette e fettine panate su per il viale della Stazione, che per un tragico effetto ottico all'inizio sembra una lieve salitella da affrontare in scioltezza ma dopo venti metri svela una pendenza da passo dolomitico in grado di far produrre acido lattico anche ai bulbi oculari.

Variante sul genere è il militare, che a differenza dello studente ha di solito un collega gentile che va a prelevarlo in cambio, si ipotizza, di una quota parte delle scorte alimentari.

Ma il vero spettacolo sono i gitanti organizzati. Scendono allucinati dal treno che per ore infinite li ha sballottati tra monti e valli d'or e poi, dietro la guida con l'ombrello di riconoscimento ben alto sulla testa, si incamminano sul toboga di via Tancredi da Pentima chiedendosi l'un l'altro “No, davvero, ma dove le hanno messe 'ste 99 Cannelle”. Poi entrano dalla porta della Rivera sfidando l'auto in uscita (ce ne è sempre una che esce quando arrivi, non mi stupirei se ci fosse una convenzione tra l'ACI e il Comune. La vera stranezza sarebbe che qualcuno rispetta una convenzione col Comune) e passano la loro mezzoretta a contare e ricontare i mascheroni e le cannelle, combinandoli variamente nella vana speranza di far tornare il numero magico.

L'unico momento di gloria questa stazione lo ha avuto dopo il terremoto, quando venne trasformata in un estemporaneo dormitorio per l'emergenza. Il che è emblematico, un luogo fatto per partenze e arrivi che si trasforma nel posto in cui si “resta” per antonomasia. Kafka sarebbe andato in estasi.

Io, come tutti gli Aquilani della mia generazione, alla Stazione ci andavo solo per il bar. E mentre i grandi, dentro, facevano colazione al tavolino, mi allontanavo col mio cannolo alla crema attraverso la porticina che dà sulla zona degli arrivi e delle partenze. Lì, nel silenzio estivo rotto solo dai suoni della campagna, la linea sottile dei “binari implacabili per nessun dove” si allontanava verso un “altrove” che non sembrava un granchè allettante.

Forse è pure per questo che il fremito del desiderio di fuga ha solo lambito la mia generazione, forse è per questo che poi uno viene su provinciale. Quante pagine immortali avremmo perso se Dylan, Guccini, Tolstoj avessero passato l'infanzia in questa tranquillizzante stazioncina di montagna? Però pensate ad Anna Karenina. Sarebbe morta novantenne nel suo letto. Che, in fondo, toglicelo e metticelo...

P.s.: mi scuso se per motivi vari la settimana scorsa ho saltato un giro risparmiandovi le mie idiozie settimanali. Fortunatamente, il livello di ridicolo in città è stato tenuto alto dalla sentenza del processo per “occupazione e danneggiamento” alla Regione, conclusosi con quattro condanne farsesche ad altrettanti cittadini attivi. Ubi major...

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