di Marco Morante - Come ogni anno, nell’appennino abruzzese, ci troviamo a discutere di sicurezza in montagna non solo nelle occasioni ristrette dei corsi, delle esercitazioni, dei convegni e delle chiacchiere tra praticanti, ma sui media generalisti e tra la gente comune, in occasione della scomparsa di uno di noi.
Puntualmente i sindaci emettono ordinanze che, sull’onda emotiva, arrivano a vietare la libertà di andarsene per monti, preoccupati di salvaguardare la vita dei meno esperti o, nei casi peggiori, solo di mettere a tacere le coscienze. Gli addetti ai lavori e le associazioni di praticanti, dal canto loro, invitano a tanta prevenzione, moltissima prudenza, combattendo ordinanze ritenute autoritarie e pregiudiziali.
Non interessa in questa sede discutere chi abbia ragione (oltre a non averne titolo, pur essendo un praticante) ma, con l’approccio di chi si occupa di organizzazione del territorio e di riconversione, vorrei sviluppare un ragionamento di politica infrastrutturale.
Il Dizionario Treccani definisce infrastruttura “il complesso degli impianti e delle installazioni occorrenti all’espletamento dei servizî ferroviarî, aeroportuali, ecc.” e, in quell’eccetera, è da includersi anche i servizi di fruizione della montagna. Così sono infrastrutture montane gli impianti di risalita ed i ristoranti in quota ma anche la sentieristica, la segnaletica, i piccoli rifugi ed i bivacchi. Per questo la normale accezione del termine, che rimanda ad impianti invasivi ed impattanti, può essere ampliata e differenziata in sintonia con un approccio “debole” di intervento sul territorio.
Il ragionamento, poi, deve anche preoccuparsi dei tempi in cui è calato, che vedono una crescente diffusione della pratica scialpinistica e del fuoripista. Tale previsione si motiva, oltre che per moda, per una nuova attrazione verso il silenzio dei luoghi isolati da una parte e, dall’altra, per il numero crescente di sciatori tecnicamente preparati (o supposti tali) che vogliono misurarsi con terreni sempre più difficoltosi ed esaltanti.
Ora, piaccia o meno ai duri e puri del rischio libero e consapevole, in questo scenario di aumento del numero di frequentatori, il problema della sicurezza è difficilmente arginabile con prevenzione, prudenza e buon senso, e sarebbe un peccato – anche dal punto di vista dell’economia del territorio - veder risolvere sbrigativamente con i soliti divieti indifferenziati o, per esempio, con il ricorso ai patentini (in entrambi i casi una scrematura, se non un respingimento).
Credo quindi che questa diatriba possa essere risolta mettendo in campo della sensata progettualità. Provo a farlo, chiamando in causa due diversi territori dell’appennino abruzzese, entrambi negletti pur nelle loro enormi potenzialità. Due proposte agli amministratori locali, dando sfogo sicuro alla pratica diffusa del fuoripista e riducendo, allo stesso tempo, il potenziale aumento di rischio sul cosiddetto “terreno d’avventura”.
Il primo caso riguarda l’areale intorno ai Piani di Pezza nel gruppo montuoso del Velino, già frequentato dagli di scialpinisti e nelle mire di una idea di collegamento tra gli impianti sciistici di Campo Felice e della Magnola. Una volta tempio dello sci di fondo (ormai surrogato dai Piani di Campo Felice, complice anche il recente tunnel), ed oggi ridotto a landa desolata e dimenticata dai più, anche per la difficiltà a rendere minimamente remunerativi le due strutture ricettive nei pressi del Vado di Pezza.
Questo circolo di monti, punte, costoni e creste intorno ai 2000 metri di altitudine si presterebbe, per ampiezza e varietà delle difficioltà, a costituire il primo esperimento di “comprensorio scialpinistico assistito” con un servizio permanente di segnalazione dei sentieri e dei pericoli oggettivi presenti. Ciò comporterebbe la manutenzione e la messa in sicurezza dei percorsi mediante indagini periodiche; la messa in funzione continuativa dei rifugi esistenti con l’eventuale integrazione di altri rifugi o bivacchi; la capacità di attrarre scialpinisti dall’Italia e dall’estero completando l’offerta di sci alpino e nordico senza andare ad intaccare ulteriormente il territorio con altre funivie.
Non so dell’esistenza di qualcosa del genere altrove, ma è un po’ come replicare alcune forme di assistenza alle grandi gare scialpinistiche alpine, in misura evidentemente ridotta ma spalmata su un’intera stagione.
Le spese ci sarebbero, ovviamente, ed andrebbero sostenute dal sistema di ricettività a pagamento che la fruizione andrebbe ad alimentare. L’ampiezza dell’areale non vedrebbe, peraltro, compromessa la quieta che, chi pratica questo sport, va cercando.
Il secondo caso riguarda Campo Imperatore, sul versante aquilano del Gran Sasso d’Italia, ed andrebbe a risolvere le due questioni che attanagliano quella località sciistica in inverno: l’incapacità di rilanciarsi con le poche piste di cui può disporre, l’alta pericolosità dei suoi fuoripista, che ne costituiscono però la vera attrattiva in condizioni – frequenti – di buon innevamento.
Fare in modo che i fuoripista ad oggi vietati dalla stessa amministrazione comunale aquilana, e teatro dell’ultima tragedia in ordine di tempo sulle nostre montagne, diventi invece il terreno sicuro per il freeride.
In questo caso di esempi ce ne sono già molti sulle Alpi (senza parlare del resto del mondo), i tracciati sono segnalati così come i pericoli residuali, mente quelli incombenti vengono preventivamente rimossi provocando, ad esempio, la caduta preventiva delle valanghe. Intorno agli impianti di Campo Imperatore di fuoripista da fare in questo modo, a valle ed immediatamente a monte, ce ne sarebbero a iosa, senza per questo precludere l’immenso terreno d’avventura sul resto del massiccio.
Quando le circostanze risultano incontrollabili, meglio surfarle.