I muri realizzati in pietrame a secco sono opere che hanno origini antichissime.
Da sempre si è utilizzata la pietra, facilmente reperibile in loco, per realizzare strutture a servizio della collettività. Le muraglie chiamate “megalitiche” o “ciclopiche” sono presenti praticamente ovunque ed in Italia, in particolare, nell’area centro meridionale; le costruzioni, che è giusto chiamare in muratura poligonale, venivano realizzate con blocchi di pietra di varie forme e di dimensioni notevoli, appena sbozzati o rifiniti sulle facce a seconda dell’epoca di costruzione e giustapposti tra di loro in modo da consentire la massima superficie d'appoggio ed il miglior incastro.
Fino ad oggi nell’area ampia della città territorio dell’Aquila erano riconosciuti come resti di mura poligonali quelli denominati “Mura del diavolo o delle fate”; sono visibili a meno di un chilometro da Cansatessa, e a due da San Vittorino: si trovano ai lati della profonda forra e sono realizzate in pietra calcarea locale senza apposizione di leganti. Blocchi di qualche tonnellata sono giustapposti in due ordini di diversa fattura a differenti quote.
Oltre queste grandi costruzioni, sono stati rinvenuti nell’aquilano anche un tratto di mura poligonali di circa cinquanta metri sulle quali è stata impostata la cinta muraria angioina della città di L’Aquila, nei pressi della porta della Stazione, e più recentemente, sul fosso di san Giuliano, alcune briglie per la regimentazione delle acque.
Nei giorni scorsi, durante un sopralluogo lungo quello che, sulle vecchie carte catastali, viene denominato Rio Peschio, in compagnia di Gianfranco Consorte, dipendente MIBACT che per primo ha individuato le strutture iniziali delle quali trattiamo, abbiamo trovato, con meraviglia e stupore, cinque briglie praticamente intatte sul rio Peschio, quattro su un fosso affluente e altre tre, più piccole, su di una valletta laterale che confluisce sul fosso affluente più un paio ormai distrutte.
Il percorso per raggiungerle è accidentato, difficile per le pendenze e per la presenza di una aggrovigliata vegetazione. Il luogo si trova a poco più di un km in linea d’area dal Teatro di Amiternum, a dimostrare l’ampiezza dell’area archeologica Amiternina e, ancora, a documentare la stratificazione di epoche storiche nell’area. Il luogo è nascosto, inaccessibile e lontano dalle pressioni antropiche che tanti danni hanno causato, e stanno causando, all’area archeologica: questo ne ha permesso la quasi completa conservazione.
E’ un’opera di ingegneria idraulica monumentale per l’epoca della costruzione, non riscontrabile altrove per dimensioni e completata, in alcuni tratti, oltre che dalle briglie trasversali, da murature a secco, sia in sponda destra che sinistra del fosso, utili a contenere le scarpate in breccia friabile che poteva essere erosa e trasportata facilmente a valle dalle acque. La parte ispezionata riguarda un tratto di circa due chilometri per
Partendo dal basso la prima briglia, la più grande, ha dimensioni di circa
La seconda briglia è sempre leggermente arcuata, ha lunghezza di circa 20 metri ed un’altezza di 3,80 metri. La parte in sponda destra è stata parzialmente distrutta dalla forza delle acque e si può così comprendere la sezione con il blocco di calcare della facciata di spessore considerevole e, dietro, un riempimento di materiale più minuto a formare una massicciata di protezione e di rinforzo. La terza briglia è tra le meglio conservate, nonostante sia sommersa dalla folta vegetazione con alberi d'alto fusto caduti sulla muratura. Lunga alla base circa 10 metri e circa 20 in sommità, con un’altezza di 3,50 metri, ha paramento quasi perfetto, pietre di dimensioni notevoli lavorate sui piani e combacianti tra di loro con zeppe per riempire i vuoti. La quarta briglia è la più piccola di quelle lungo il rio Peschio, misura solo 12 metri in sommità; realizzata con pietrame grossolanamente squadrato di grosse dimensioni e per lo più con blocchi di brecce cementate. In sponda destra si nota un tratto realizzato con pezzature più piccole ma meglio squadrate, probabilmente frutto di un antico intervento di restauro. Questa si può classificare al I° ordine nella scala del Lugli.
La quinta briglia, lungo il fosso del Peschio, è sicuramente la meglio realizzata e conservata - insieme alla terza - anche per la mancanza del muschio sul paramento. E’ quella che si somiglia, in particolare per le file più in alto dei conci, alla muraglia del fosso del Diavolo. E' comprensibilmente attribuibile alla IIIa classe del Lugli. Con conci di brecce cementate, esattamente lavorate sulle facce di appoggio in modo da permettere contatti perfetti tra i blocchi, i vuoti riempiti da zeppe, di grosse dimensioni in modo da dare un paramento perfettamente piano, anche questa è costruita ad arco: ha un'altezza massima intorno a 4 metri, una lunghezza alla base di circa 8 metri ed in sommità di circa 18 metri lineari.
Il sistema di regimazione delle acque si ripete nella prima valle che affluisce al fosso del Peschio ed anche in una seconda valletta che confluisce nella prima valle. Le opere sono più semplici, i blocchi meno lavorati, più piccoli e giustapposti in maniera meno precisa. L’ultima briglia indagata della valle laterale, la quarta, pur se non di grandi dimensioni - due metri di altezza per circa 12 di lunghezza in sommità - torna ad essere realizzata con ottimi materiali, perfettamente lavorati e giustapposti a chiudere tutti gli spazi; anch’essa è classificabile nella IIIa classe del Lugli.
Questo breve racconto del complesso sistema di regimentazione delle acque su una vasta area si conclude con la descrizione delle briglie di una valle ancora più piccola dove sono state realizzate opere con piccoli blocchi accostati in maniera irregolare.
L’interrogativo che a questo punto si deve porre è il perché di questa enorme ed ingegnosa (per l’epoca) opera idraulica e quale popolo l'ha realizzata. Alla prima domanda si può rispondere che il rio del Peschio, lungo circa cinque chilometri e con un salto di più di
Chi le ha realizzate? La letteratura dei secoli passati è piena di contraddittorie indicazioni sui costruttori delle mura poligonali. Per la loro imponenza, queste costruzioni furono attribuite persino ai mitici ciclopi o ai Pelasgi, misterioso popolo preellenico. Le parole di Giulio Magli, docente di architettura al Politecnico di Milano, sono dirimenti sull’argomento. Egli osserva come "i Romani non lasciarono mai alcuna testimonianza scritta o figurata di aver costruito in opera poligonale", e quindi ritiene più ragionevole supporre "che le mura poligonali non facessero parte della loro forma mentis" concludendo che gli indizi "puntano fortemente verso una pre-romanità dell'opera poligonale in Italia". Più semplicemente, nell’Italia centrale c’erano Etruschi ed Italici e questi ultimi sono i più probabili autori delle opere di cui trattiamo.
Quando sono state costruite? A questa domanda, in mancanza di fonti, dovranno dare risposte certe gli scavi archeologici. Qui ci limitiamo solo accennare le ipotesi più attendibili, riportate dai corposi studi fatti sull’argomento per qualche secolo. La maggior parte degli studiosi considera per le opere poligonali un arco temporale che, in genere, va dalla fine del VII a.c. a tutto il periodo repubblicano: considerando che questa parte della sabina fu romanizzata nel II sec. a.c., siamo dentro questo periodo e sono probabili anche commistioni con gli occupatori romani.
Quello descritto è un sistema di difesa e regimentazione delle acque eccezionale. Sotto molti aspetti “moderno” se consideriamo la curvatura di controspinta, i contrafforti laterali, la base sotto la briglia così da evitare erosioni e le murature laterali del fosso a protezione. Un sistema importante, una polarità archeologica unica nel suo genere per l’area aquilana e per quelle adiacenti. Un altro pezzo di un puzzle che si va costruendo intorno ad Amiterno e che trova nuova vitalità del periodo italico con le scoperte fatte sul colle di San Vittorino (Testruna?) dal prof. Michael Heinzelmann e con la scoperta della più grande necropoli sabina nella zona industriale di Pizzoli.
L’organizzazione demica potrebbe quindi essere così descritta: abitato sabino sul colle di San Vittorino, necropoli a meno di due chilometri (stesso schema della necropoli di Fossa e dell’insediamento del Cerro), terreni coltivabili nel mezzo, pascoli e transumanza verticale nelle montagne verso il Gran Sasso.
Attenzione, salvaguardia, conservazione e valorizzazioni è quello che si deve reclamare oggi, se veramente si vuol proteggere l’area e se qualcuno crede ancora di poter fare turismo culturale. Da chi ha scritto queste note, disponibilità per salvaguardare e valorizzare un bene che più di altri racconta storia ed una preghiera, a chi per legge ha deleghe specifiche, affinché attivi tutte le norme a disposizione per salvare le aree d'interesse archeologico, in particolare quelle intorno ad Amiternum.
Giovanni Cialone Italia Nostra L’Aquila;
Gianfranco Consorte MIBACT.