Qual è quella ruina che nel fianco
Di qua da Trento l’Adice percosse
O per tremuoto o per sostegno manco,
Ché da cima del monte onde si mosse
Al piano è si la roccia discoscesa.
Ch’alcuna via darebbe a chi su fosse.
Dante Alighieri (1265-1321).Divina Commedia, Inferno, XII canto
Così Dante descriveva le grandi frane in roccia che interessavano la valle dell’Adige nei pressi di Lavini di Marco, riconoscendone correttamente l’origine naturale, a causa forse di terremoti o di erosione al piede (per mancanza di sostegno) dovuta all’erosione del fiume. Per noi appare forse cosa naturale, ma per la morale dell’epoca è stupefacente: solo mezzo secolo prima la grande frana di monte Granier, nell’alta Savoia, che distrusse sette paesi (sette parrocchie) con il tragico bilancio di oltre 5000 vittime, fu attribuita alla punizione divina per la presunta abitudine dei montanari di depredare i viandanti che percorrevano la valle.
In realtà la frana fu dovuta al crollo della parete verticale della montagna (fig. 1), strapiombante per oltre 500 metri, probabilmente a causa delle fortissime e prolungate piogge che, nei giorni precedenti, avevano riempito il reticolato carsico delle formazioni calcaree, imbevendo le sottostanti marne argillose e trasformandole in una massa fangosa instabile. Il 24 novembre 1248 la montagna rovinò a valle, spazzando via ogni opera dell’uomo e trasportando enormi blocchi di calcare, come iceberg rocciosi, fino al centro della vallata. Naturalmente si trattò di una configurazione geologica particolarmente sfavorevole, ma purtroppo comune sia in Alpi che in Appennino: grandi ammassi di depositi caotici testimoniando che frane di grandi dimensioni sono molto più frequenti di quanto si possa immaginare.
Probabilmente la più impressionante tra le frane in roccia delle Alpi (sturzstrom in tedesco) è quella di Flims (fig. 2), nella parte svizzera dell’alta valle del Reno, datata con metodi radiometrici a circa 8.000 anni fa. L’enorme frana coinvolse circa 10 km cubi di roccia calcarea, che si staccò dalle pareti della montagna chiamata Flimserstein e, precipitando da una quota di quasi 2000 metri, scivolò lungo la superficie marnosa debolmente inclinata dove ora sorge la località turistica di Flims, ed infine si arrestò nella valle del Reno, circa 12 km più a valle, causando un lago di sbarramento (ora fossile) chiamato Ilanz. Oggi Il Reno ha ripreso possesso del suo alveo, incidendo nei depositi della grande frana il Riunaulta, un profondo canyon di grande interesse turistico.
Per molti anni i depositi del Riunaulta furono uno dei tanti enigmi geologici, perché sembrava impossibile che masse tanto imponenti di roccia potessero percorrere così grandi distanze lungo superfici poco inclinate, pianeggianti od addirittura risalire leggeri pendii, quasi si comportassero come colate fluide.
In effetti, al nostro senso comune, appare istintivo immaginare che i blocchi rocciosi, precipitando dal fianco della montagna, si accumulino alla base della scarpata o poco oltre a causa delle forze di attrito con il suolo che ne smorzano rapidamente la velocità di avanzamento. Ciò è vero se, per esempio, facciamo scivolare un mattone lungo un piano inclinato: raggiunto il piano di base il mattone percorre ancora un certo spazio prima di fermarsi. Più in alto viene posto il mattone, maggiore è la velocità che acquista nella discesa, maggiore la distanza alla base che può percorrere. La velocità che il mattone acquista, e la distanza che percorre alla base, sono funzione del coefficiente di attrito tra materiale del mattone e quello del piano su cui scivola. In genere, tanto per i mattoni che per le piccole frane di scivolamento il rapporto è di 1:1. Questo rapporto è chiamato coefficiente di attrito apparente.
Per le grandi frane tuttavia le cose stanno diversamente. Una grande frana, come quella di Flims, che coinvolge miliardi di tonnellate di roccia, libera una quantità di energia gravitazionale impressionante.
Il conto è facile da fare: 1kg di roccia (o di ferro, o di acqua) che cade da 1m di altezza libera un’energia potenziale gravitazionale di 9.8 Joule. Dieci miliardi di tonnellate di roccia (5 km3) che precipitano da 1 km di altezza liberano un’energia di 1013kg x 103m = 9.8x1016 Joule (circa cento milioni di miliardi di Joule) equivalenti circa a 20 Mton, l’energia rilasciata da 20 milioni di tonnellate di tritolo o da 20 terremoti come quello dell’Aquila.
Che fine fa tutta questa quantità enorme di energia? Proprio grazie all’attrito si trasforma in calore fino a fare evaporare l’acqua od addirittura fondere le rocce in prossimità dei piani di frizione. Le rocce fuse, spesso bollose, simili a lave vulcaniche, ritrovate alla base od in altri livelli nelle grandi frane (un altro mistero geologico per molti anni) prendono il nome di frizioniti (fig. 3). La roccia fusa, spesso arricchita anche da vapori ad altissima temperatura, fornisce un strato fluido su cui il materiale scorre con bassissimo attrito, un poco come un’automobile quando, procedendo ad alta velocità, blocca improvvisamente le ruote: tra lo pneumatico e l’asfalto si forma uno strato di gomma fusa che impedisce all’auto di aderire efficacemente alla strada.
Questo meccanismo fu osservato e studiato da Albert Heim nella frana che coinvolse il paese di Elm nel settembre del 1881 (fig. 4). La frana si staccò improvvisamente dal versante della montagna, dove gli strati di ardesia erano stati improvvidamente scavati dai valligiani per essere venduti come lavagne scolastiche, scivolando a valle per circa 500 m.; contrariamente al pensiero degli abitanti del villaggio, la massa rocciosa non si fermò alla base della scarpata, ma risalì in parte il versante opposto poi, proprio come una valanga di roccia deviò verso la sottostante vallata sfiorando il paese e fermandosi infine ad oltre 2 km di distanza (fig. 5). In seguito (1932) Heim, aiutato dal fisico Muller-Bernet, calcolò una velocità di picco di circa 300 km/ora, con un coefficiente di attrito apparente ben minore di quello teorico.
Da allora molte frane di roccia, sia storiche che preistoriche, sono state riesaminate ed il loro parametro di attrito apparente ricalcolato, dimostrando che questo diminuisce in proporzione alla massa della frana, e quindi aumenta la distanza percorsa dal corpo di frana. Le frane più grandi osservate (come quella di Frank in Alberta o di Saidmarreh in Iran meridionale) si possono estendere per decine di km rispetto all’area di scivolamento.
Per chi ha interesse all’argomento, o ai vari fenomeni del nostro pianeta in generale, consiglio “Aria Acqua Terra Fuoco” di Fabio Vittorio De Blasio, disponibile anche in formato elettronico.
Tornando alle Alpi, stupisce anche la frequenza delle grandi frane. Oltre a quelle storiche più famose (Piuro, Granier, Elm ecc.) un numero sempre maggiore di frane catastrofiche (miliardi di tonnellate di materiale e più) vengono scoperte e censite. Fino a poco tempo fa si pensava che la maggior parte delle grandi frane preistoriche fossero da riferire alla fine dell’ultimo periodo glaciale (tra 15.000 e 10.000 anni fa, a causa del ritirarsi delle grandi lingue glaciali che spingevano sui fianchi delle vallate. Più recentemente tuttavia le moderne tecniche di datazione radiometrica, applicate sia ai depositi lacustri sia a materiale organico (tronchi ecc.) trovato all’interno dei depositi di frana, hanno rivelato spesso età più recenti. Le stesse frane di Lavini di Marco (fig. 6) mostrano sia episodi precedenti all’ultima glaciazione (e quindi corpi detritici spostati ed erosi dalle lingue glaciali) sia posteriori al ritirarsi dei ghiacci. L’ultimo episodio di frana risulterebbe precedere di circa 500 anni l’età di Dante.
Questo purtroppo implica che le grandi frane, ben lungi da essere confinate nel lontano passato, possono manifestarsi in qualunque momento, con o senza l’aiuto dell’uomo.
Ed in Abruzzo?
Nel nostro piccolo non ci facciamo mancare mai niente, nemmeno qualche grande frana. Non parlo naturalmente delle centinaia di smottamenti più o meno grandi che ogni anno interessano le colline argillose sul versante adriatico del Gran Sasso o della Maiella, né dei blocchi rocciosi che frequentemente precipitano dalle pareti strapiombanti del Gran Sasso, ma delle grandi frane in roccia che possono rivaleggiare con le sturzstrom delle Alpi.
Tra le mie preferite c’è la frana di Lettopalena (fig. 7), che circa a 3.000 anni fa si staccò dal versante orientale della Majella producendo quell’enorme cumulo di brecce calcaree su cui sorge il paese attuale. La frana di Lettopalena è sufficientemente lontana nel tempo da non coinvolgerci emotivamente, ma nel contempo ci rende chiaramente consapevoli della realtà dinamica e vitale del mondo geologico che ci circonda.
La Majella è come un paese dei balocchi per i geologi, perché è una montagna giovane ed imponente, che sta ancora crescendo, a ritmi lentissimi (pochi metri ogni mille anni) ma purtuttavia già avvertibili sulla scala della storia umana. In alcune grotte della Majella si possono riconoscere stalattiti e stalagmiti antiche, sistematicamente inclinate verso valle, seguite da altre verticali di più giovane formazione. Poiché il tempo nelle grotte appenniniche si misura in centinaia di migliaia di anni, è evidente che la variazione dell’asse delle stalattiti accompagna il lento piegamento degli strati calcarei a formare una struttura rialzata chiamata “anticlinale”. Più gli strati frontali si sollevano e divengono verticali, maggiore è l’instabilità gravitativa del sistema.
Oggi l’imponente massa di detriti (fig. 7) è aggredita e smembrata da tante minuscole macchinine (piccole ruspe, piccoli camion, piccoli escavatori) che, controllate da tante piccole formichine umane, stanno saccheggiando le brecce calcaree per costruire i loro piccoli nidi di cemento. Ignari naturalmente che la montagna sta ancora crescendo, e che nuove frane si stanno preparando a scendere a valle dalle lisce pendici a franapoggio. Le frane più recenti, se pur molto minori per quantità di detriti, sono datate al 1400 ed al 1995.
Un caso diverso, ma ugualmente imponente e molto più preoccupante è la frana di Scanno-Frattura (fig. 8), nelle vallate centrali dell’Appennino abruzzese. Questa frana si staccò dalle pareti sud-occidentali del monte Genzana alcuni secoli prima di Cristo, in piena epoca repubblicana, e precipitò per quasi mille metri fino a raggiungere l’alveo del Tasso-Sagittario, ostruendolo completamente e causando la formazione del famosissimo lago a forma di cuore tanto amato dai fotografi che frequentano il paese di Scanno. L’impatto a valle fu tale che il corpo della frana risalì (come nel Vajont) di un centinaio di metri sul versante opposto. Il distacco della frana di Scanno fu certamente favorito dalla presenza di una importante faglia attiva che ne delimita a monte la zona di distacco, ma non ci è dato sapere se lo scivolamento fu innescato anche dal movimento della faglia e/o da un terremoto.
Purtroppo il fenomeno franoso è ben lontano dall’essere esaurito, perché la potenziale zona di distacco continua verso Est ed è chiaramente individuata dal piano di faglia attivo ben visibile sul fianco della montagna a monte del paese di Frattura. Quest’ultimo, come indica il nome stesso, è interessato da lenti e continui movimenti del suolo che destano molte preoccupazioni ma ben poche iniziative reali di monitoraggio e protezione se non (al solito) il divieto di accesso dei residenti alla zona interessata dai movimenti.
Cosa fare? È possibile prevenire gli effetti catastrofici delle grandi frane?
Oggi le moderne tecniche di telerilevamento e le migliori conoscenze litostratigrafiche sui corpi detritici stanno rivelando un numero sempre più consistente di grandi frane in roccia (si stima il 4% del territorio delle Alpi), ed abbiamo anche visto come molte di queste siano da riferire a tempi relativamente recenti (migliaia o centinaia di anni) così che si comincia ad avere una percezione reale del potenziale rischio che esse presentano.
Purtroppo, come abbiamo messo in evidenza nelle pagine iniziali, la dimensione e la quantità di energia dei grandi fenomeni franosi in roccia è enormemente superiore alle possibilità dell’uomo di porre in opera qualsiasi strategia di controllo degli eventi. Quando la frana comincia la fase di scivolamento rapido è oramai completamente inutile ogni strategia di protezione o di fuga. Tuttavia la meccanica dei fenomeni franosi è oggi sufficientemente ben conosciuta da rendere possibile individuare i movimenti precursori e calcolarne traiettoria, velocità di caduta ed effetti sul territorio e sugli insediamenti antropici.
In alcuni casi la frana, come quella di monte Granier, può essere preceduta da piogge di particolare intensità che rendano instabili gli strati di base. Anche nel caso di grandi frane “asciutte” il movimento comincia lentamente, ma bastano pochi metri di scorrrimento lento che una grande frane rocciosa può liberare per attrito il calore necessario a rendere instabili gli strati basali del corpo di frana, così che questa può rapidamente accelerare fino a raggiungere centinaia di km/ora, come nel caso di Elm o del Vajont.
Finora non ho parlato del Vajont perché, pur avendo la dimensione e le caratteristiche di una grande frana in roccia, si è comunque trattato di una catastrofe dovuta a alla cattiva gestione dell’ambiente ed alla sconsideratezza della società umana. Se la grande frana del monte Toc avesse seguito il suo corso naturale, così come le decine di frane fossili che la hanno preceduta, sarebbe stato l’ennesimo corpo di frana accumulato nel vallone, magari con un bel lago di sbarramento a monte, come a Scanno o come successe per la frana della Valtellina del 1987 (40 milioni di metri cubi).
Tuttavia successe ben diversamente, ed il Vajont rimane l’emblema di un sistema tecnico e politico irresponsabile, arrogante ed incapace di prendere le decisioni necessarie ogni qualvolta si presenti un’emergenza diversa dall’ordinaria gestione. Non sto parlando di corruzione o altro, quelle le do per scontate e le inserisco tra i parametri tecnici come l’accelerazione di gravità ed il coefficiente di attrito.
Ciò che deve farci riflettere è che i tecnici, gli ingegneri ed i geologi che progettarono e seguirono lo svolgersi degli eventi della purtroppo famosa diga erano i migliori disponibili sul mercato, competenti, preparati e certamente in buona fede. Avevano tutti gli elementi necessari per calcolare l’entità, la traiettoria e la velocità della caduta della frana: le formule di Heim sulle velocità di caduta, che abbiamo già incontrato ad Elm, erano già stare scritte da 50 anni. Il volume della frana (forse qualcuno ricorderà la famosa “frattura ad M”, ben visibile anche in fig. 11) era stato calcolato con precisione (300 milioni di metri cubi); in più, pochi anni prima, ennesimo inutile monito alla stupidità umana, in un lago artificiale poco distante il custode della diga era stato travolto ed ucciso da un’onda di 25 metri di altezza causata da una piccola frana caduta nell’invaso. Nonostante quindi gli elementi conoscitivi per valutare e prevenire il disastro ci fossero stati tutti, le cose si svolsero in modo ben diverso.
Tecnici ed Ingegneri, secondo l’italica regola del “io speriamo che me la cavo”, avevano previsto (o forse sperato?) che la frana sarebbe scesa a velocità molto più bassa di quanto indicato dalle formule di Heim, addirittura si sarebbe dovuta “sedere su se stessa” nelle testuali parole di uno dei progettisti. I tecnici e lo stesso ingegnere che presiedeva all’invaso erano talmente certi che l’onda sarebbe rimasta contenuta in poche decine di metri, che quando la frana cominciò ad accelerare rimasero sulla diga per controllare le operazioni da quella che credevano fosse una postazione di sicurezza. Come sappiamo, l’onda passò oltre 200 metri sopra le loro teste.
Nonostante questi drammatici e ben evidenti moniti della storia anche noi, oggi, in perfetta buona fede, tendiamo ad ignorare e rimuovere dalla nostra coscienza le situazioni di pericolo più gravi ed evidenti ritenendole al di sopra della nostra portata, affidandoci alla protezione superiore di un indaffaratissimo S.Gennaro.
Io speriamo che me la cavo vale anche per i terremoti, le alluvioni, i disastri da inquinamento, il degrado delle risorse ambientali, i cambiamenti del clima ecc.
Del resto mettiamoci nei panni di chi ha la responsabilità politica di prendere le decisioni in caso di imminente calamità. Poniamo anche, per assurdo, che siano persone oneste e preparate, con uno staff di collaboratori efficienti. Che fare nel caso si manifestasse una situazione di pericolo grave ma non ancora immediato? Dare l’allarme tempestivamente, per avere il tempo di evacuare migliaia di persone? E se poi l’evento non accade? E se si aspetta l’ultimo minuto, per essere certi che l’evento accadrà a breve termine, chi convincerà migliaia o milioni di persone a fuggire rapidamente, magari abbandonando tutti i loro averi?
Probabilmente la cosa migliore (l’unica?) da fare è che ciascuno si renda cosciente della vera consistenza del rischio, che la comunità appronti un piano di protezione civile relamente adeguato al tipo di pericolo e che gli amministratori della cosa pubblica facciano una adeguata politica di informazione per preparare le persone ad agire in maniera corretta e tempestiva.
Piano piano, forse troppo lentamente, ci stiamo muovendo verso questo obiettivo. Riusciremo ad essere pronti prima della prossima catastrofe, o continueremo ancora ad essere balia di Santoni, Profeti di Sventura, Finti Scienziati, Truffatori e Farabutti vari che speculano sull’ignoranza dei più e si riempiono le tasche con le paure della gente?