Di Enrico Macioci - Son già dieci anni. Nel luglio del 2004 io e la ragazza con cui stavo da poco ci lasciammo – temporaneamente, adesso siamo marito e moglie – e mi sentii abbastanza solo e triste da decidere di gettarmi in un’impresa scriteriata.
Mi fiondai presso l’agenzia che al tempo, nell’era pre-terremoto, dimorava sotto i portici e acquistai due biglietti d’autobus: il primo L’Aquila-Mestre, il secondo Mestre-Reims, in totale ventidue ore di viaggio. Il giorno dopo partii.
Il viaggio si rivelò interminabile; da un certo punto in poi mi sedette accanto una grossa zingara dai piedi nudi e puzzolenti; la zingara attaccò bottone, mi domandò di che segno fossi. “Gemelli” risposi. E lei: “Mm, allora sei di certo un uomo in fuga.” Io la guardai, poi guardai la mia maglietta sdrucita, i miei pantaloncini corti, la mia barba ispida e il mio sparuto zainetto (blu con finiture bianche) e decisi di tenere per me qualsiasi opinione sulle sue facoltà divinatorie. Dormii poco e male mentre una fitta pioggia strisciava sul finestrino.
L’indomani Reims m’accolse con un bel sole, ma non ero ancora giunto alla méta; alla stazione dei treni presi un locale per Charleville, una piccola città nel profondo nord della Francia, quasi al confine col Belgio; in mezz’ora di sbuffante rollio arrivai.
La prima cosa che vidi fu un gigantesco cartellone che riproduceva la celebre fotografia di Carjat; davvero, non è mai esistito nessuno più bello del Rimbaud diciassettenne. Se mai l’adolescenza ha deciso d’incarnarsi, l’ha fatto in lui. Lui è l’Adolescente mentre quelli prima, durante e dopo di lui sono solo giovani uomini e donne in attesa d’invecchiare. Amen.
Scesi dal treno e m’avviai subito alla Place Ducale; in piazza avvicinai un gruppetto di signori anziani, nientemeno che emigranti abruzzesi; mi dettero potenti pacche sulle spalle e in un italiano stentato ma comprensibile mi consigliarono un albergo. Lo raggiunsi; benché si trattasse d’una catapecchia presi la stanza: era molto in tinta con la mia avventura. Feci una doccia, mi cambiai e uscii.
Non mi pareva vero trovarmi lì; il cielo delle Ardenne, d’un azzurro freddo come il pervinca dei famosi occhi di Arthur, correva sopra di me in larghe venature, ed io pensavo che era lo stesso pezzo di cielo che aveva visto lui, che per la prima volta visitavo luoghi in cui s’era trovato anche lui; una ben magra consolazione, penserete, ma il mito e l’amore s’accontentano di poco. Il mito e l’amore s’aggrappano al più esile rametto e se ne fregano dell’abisso sottostante.
Del resto non ero solo nella mia follia; nel corso degli anni avevano compiuto il mio stesso pellegrinaggio Allen Ginsberg (che ottenne di dormire nella camera da letto di Arthur, una cosa piuttosto macabra) e Aldo Busi, Edmund White e Jim Morrison, Patti Smith e Henry Miller, perfetti sconosciuti e perfette celebrità, tutti uguali davanti al roveto ardente, tutti abbagliati dal suo fuoco.
Visitai il museo – un ex-mulino affacciato sulla Mosa, il fiume che ispirò ad Arthur i versi visionari e profetici del Battello ebbro e quelli onirici e incredibilmente cinematografici di Memoria; visitai la casa natale; visitai la casa dove visse dai sette anni in poi (ma non potei entrarvi per lavori in corso, altro che Ginsberg); visitai la scuola dove frequentò tre classi in una, ottenne trentasette primi premi su trentotto (l’unica volta che non vinse fu perché insultò il professore di storia), tredici note di merito e la medaglia d’oro al concorso di latino e greco (a 14 anni, contro i seminaristi di 30, e dormendo per tre delle sei ore di durata della gara), prima di mollare per sempre compagni e docenti a quindici anni appena compiuti; visitai il bar dove s’intratteneva con gli amici, col professor Izambard e con l’eccentrico cabalista Bretagne; annusai insomma la sua atmosfera.
Per ultima lasciai la tomba; subito prima del cimitero c’è un casotto dove vengono raccolte le decine di lettere che quotidianamente da ogni parte del mondo la gente continua a inviargli. E’ più che bizzarro che un uomo morto il 10 novembre del 1891 riceva delle lettere; è miracoloso. Così com’era miracoloso ch’io mi fossi sobbarcato ventidue ore di autobus per vedere dove quell’uomo nacque, crebbe e (dopo inenarrabili vagabondaggi) morì.
Davanti alla lapide – bianca, spartana – mi sentii male; non ero mai stato tanto vicino a lui, né tanto lontano; il ragazzo dalle suole di vento che vagò per l’intera Europa, che si spinse fino a Giava e Sumatra ed esplorò le zone più selvagge dell’Africa, la voce assoluta della lirica moderna, l’undici settembre della letteratura, l’arcangelo in esilio che s’operò da vivo della poesia, questo prodigio ineffabile giaceva a un paio di metri da me, quieto e inerte; lui sottoterra, io sopra, nelle mie scarpe da ginnastica malconce.
Cos’era diventato? Cosa c’era laggiù, dentro la bara? Uno scheletro ancora piuttosto integro? Ossa in mezzo a brandelli di stoffa muffita? Polvere? Radici? Vermi? Allora capii che la forza del mito sta nella sua sostanziale irraggiungibilità. Che ne resta se diventa un oggetto a portata di mano? Se rientra nell’alveo mortifero della cosiddetta normalità?
Noi ci protendiamo verso un altrove che vagamente intuiamo e desideriamo, siamo sempre proiettati altrove anche quando crediamo di stare qui, e Rimbaud è la sintesi geniale e fulminante dell’altrove; del resto non fu proprio lui a scrivere, alla tenera età di sedici anni, "Io è un Altro"? E aveva ragione. Io è un Altro, e quest’Altro è il mio vero Io.
Me ne andai senza più guardare la lapide rigida e ottusa, la negazione (apparente) della portentosa luce di Arthur Rimbaud. Che c’entrava quel pezzo di pietra con lui? Che c’entrava, soprattutto, col messaggio della sua poesia? Lui sapeva che, prima o dopo, ci sarà dato “possedere la verità in un’anima e un corpo”; ma non qui e non ora, non in questo mondo così storto. Lui aveva cantato “l’affetto e l’avvenire, la forza e l’amore che noi, in piedi fra le rabbie e gli affanni, vediamo passare in cieli di tempesta e bandiere d’estasi.” Tanto bastava. Anzi, era già troppo.
La sera mangiai in Place Ducale dividendo il tavolino del bar con una fauna variegata: uno spagnolo di Malaga venuto in motocicletta, una coppia di fidanzati inglesi che avevano fatto l’autostop da Liverpool, ungheresi, greci, turchi, persino sudamericani (argentini, per la precisione), e poi tipi e tipe del luogo o dei dintorni.
Eravamo tutti là per lo stesso motivo: toccare il mito, saggiarne il calore (nel 2004 correva il centocinquantenario della nascita del poeta, una coincidenza cui non avevo riflettuto). Dopo le undici s’unirono a noi gli emigranti abruzzesi, che a dispetto dell’età ci diedero dentro col vino. Ci ubriacammo con moderazione.
Il crepuscolo fu graduale, quasi non calò la notte, le nuvole si sfilacciarono e assunsero una tonalità rosa e poi violacea, come grandi fiori con un po’ di febbre; le stelle erano immobili e precise, minuscole punte di ghiaccio.
Il giorno dopo lasciai Charleville sotto una fitta pioggia novembrina; non avevo ombrelli e non me ne procurai. Portavo i capelli rasati e le gocce a fior di pelle mi facevano sentire più vivo, più presente (“La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo” aveva scritto lui nella Stagione all’inferno, subito prima del silenzio definitivo, a diciannove anni ancora da compiere).
Alla stazione comperai un biglietto per Reims e poi salutai la città sollevando una mano. Non ci sono più tornato e forse non ci tornerò più, e mentre salutavo lo sapevo già. Pensai che era stato entusiasmante e terribile e giusto spingermi lassù, aver tentato di conoscere il mito e aver compreso che un mito non si conosce ma si cerca e si desidera; che un mito vive nello spazio misterioso fra ciò che si sa e ciò che si spera di sapere; che un mito è l’eterno in atto.