Gli interventi dei politici locali e regionali di questi ultimi giorni insieme ad alcune notizie apparse sui mass-media ci fanno capire che è iniziato l’assalto alle aree protette abruzzesi o almeno ad alcune di esse. Aree protette che già di proprio non se la passano bene. A questo va aggiunta l’improvvida approvazione, alla fine della consiliatura, in fretta e furia, del regolamento del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga che ha acuito le tensioni.
Ci auguriamo che questo scivolone venga recuperato ed il regolamento rimesso in discussione aprendo il confronto alla partecipazione dei portatori d’interesse. A margine va ricordato però che il regolamento è stato approvato dal consiglio direttivo del Parco dove ci sono quattro amministratori locali in rappresentanza della Comunità del Parco.
E’ di qualche giorno fa la notizia che l’assessore con delega aree protette, Emanuele Imprudente, ha inviato ai Comuni del Parco Regionale del Sirente Velino la riperimetrazione dello stesso. La proposta è simile, se non identica, a quella messa a punto da Donato Di Matteo nella passata legislatura ma mai ufficialmente esplicitata forse per vergogna. Un parco regionale ridimensionato, con la Valle Subequana che resta quasi completamente fuori. Operazione indecente per metodi e contenuti e dove non c’è nulla di scientifico, fatta per accontentare fondamentalmente la lobby dei cacciatori prendendo a pretesto ritardi nella ricostruzione. I sindaci della Subequana, a maggioranza, si sarebbero espressi per l’uscita dal Parco, accordandosi con l’assessore per un parco spezzatino, ridimensionato di circa un terzo rispetto ai confini attuali. E l’avrebbero fatto per motivi politici e di propaganda, non tecnici o oggettivi.
Ma perché i sindaci vogliono uscire dal parco? Perché, dicono, per più di 25 anni il parco è stato un organismo iperburocratizzato che ha imposto solo vincoli e restrizioni. Un peso, non una risorsa e un’opportunità di sviluppo. E’ vero, il Parco è stato finora un guscio vuoto, è stato gestito più “come una comunità montana”, la responsabilità però è soprattutto dei comuni che ne fanno parte e della Regione. Tra gli amministratori locali che oggi caldeggiano questa riperimetrazione ci sono anche quelli che per decine di anni sono stati abbarbicati alle poltrone del consiglio direttivo e della comunità del parco e in così tanto tempo non sono stati capaci di tirare fuori uno straccio di piano del parco che superasse finalmente la rigidità delle norme di salvaguardia né uno straccio di piano di sviluppo socio-economico. Per tutti questi anni hanno considerato il parco Sirente Velino come un’estesa comunità montana da mungere, un bancomat da utilizzare per interessi localistici. E oggi, chi sedeva nel consiglio di amministrazione o nella comunità del parco, si accorge di essere stato inutile ed inefficiente e si accorda con l’assessore di turno per smembrare l’area protetta, già abbondantemente ridimensionata in passato. Un parco così ridisegnato non serve a niente e a nessuno, è una presa in giro. La politica si deve assumere le proprie responsabilità. L’assessore Imprudente deve avere il coraggio di presentare una proposta di cancellazione, di soppressione completa, deve avere il coraggio di dire a tutti che la ex regione verde d’Europa non lo vuole, non gli serve e non è stata e non è capace a gestire il suo parco regionale e se ne infischia se esso è un bene che dovrebbe essere di tutti.
E’ anche pronto e sarà presentato a breve lo studio di non meglio precisati esperti che ridisegnano l’area SIC del Gran Sasso nelle forme utili a coloro che hanno dato l’incarico agli estensori della proposta, con fondi pubblici. Questo alla faccia di qualsivoglia scientificità dell’operazione, in quanto i desiderata del committente sono di altra natura. Se si riteneva opportuno ridiscutere il perimetro del sito di interesse comunitario si poteva, anzi si doveva, coinvolgere l’Università dell’Aquila che nella materia ha specialisti di valore internazionale e da garanzia di terzietà, non essendo un privato a pagamento.
Insomma un attacco ad un modello di sostenibilità, che, con tutte le carenze descritte è ancora l’unica speranza per le aree interne e l’unico che può permettere il mantenimento di presidi stabili ed un futuro alle terre alte. Si sta tornando indietro di decenni.
Eppure del decennio 1990 l’approvazione di due leggi importanti (la legge sulla montagna e la legge quadro sulle aree protette) dava speranze per provare a dare soluzioni alla crisi strutturale che attanagliava allora ed oggi ancora di più le aree interne. Fiscalità di vantaggio, controvalore dei servizi ecosistemici forniti dalla montagna, specificità montane e aree protette come modello di sostenibilità erano le parole d’ordine con le quali costruire politiche per cercare di arginare l’esodo dalle aree interne. A 30 anni di distanza dobbiamo dire che non è andata bene. La legge sulla montagna, ancora vigente, è stata da subito nascosta dentro qualche cassetto e le aree protette, dopo il finanziamento del primo piano triennale sono state depotenziate vedendo diminuire, anno per anno, i trasferimenti economici. A leggere le notizie provenienti dagli USA, dove si insiste sulle politiche di protezione di vaste aree, ci si accorge che per ogni dollaro investito nei parchi ne ritornano 12. Meglio della finanza speculativa.
Le colpe di tutto ciò vanno divise equamente tra lo Stato centrale che non ha più ritenuto di investire in queste aree, i partiti politici che hanno lottizzato consigli direttivi e presidenti ed in minor parte anche le associazioni ambientaliste che hanno abbassato la guardia accontentandosi di qualche direttore e qualche posto nel consiglio direttivo.
Poi ci sono gli amministratori locali considerati protagonisti centrali nella legge quadro sulle aree protette. La Comunità del Parco, dove sono rappresentate tutte le amministrazioni con aree ricadenti nel perimetro dei parchi, oltre a controllare e stimolare il consiglio direttivo ha infatti il compito centrale di redigere ed approvare il Piano Socio-economico. Elemento essenziale di programmazione che, con il Piano del Parco, di competenza del consiglio direttivo, completa gli strumenti di gestione. Nel PNGSL, ad esempio, il piano del parco ha visto la luce nei giorni scorsi dopo più di venti anni ed arriva alla fine già vecchio, datato, superato; il piano socio-economico, pur in presenza di budget per la sua realizzazione, non è mai stato redatto. I sindaci, o i loro delegati, da venticinque anni si rifiutano di redigerlo, preferendo considerare il Parco solo come uno sportello dove chiedere oboli per le più svariate esigenze. Il parco del Velino Sirente addirittura non ha né Piano del Parco né Piano socioeconomico. Senza uno strumento di programmazione è difficile funzionare.
Naturalmente quando si fa solo propaganda ci si dimentica di chi veramente vive e lavora in montagna, ci si dimentica che da in tre lustri la Regione Abruzzo non è stata capace di approvare i piani di gestione dei SIC e delle ZSC e così gli agricoltori e gli allevatori non ricevono le misure di compensazione finanziate dall’Europa. Di contro ad esempio la Lombardia che ha SIC e ZSC paragonabili per superficie all’Abruzzo, destina ogni cinque anni 20 milioni di euro per le misure di compensazione. Praticamente agli allevatori ed agricoltori abruzzesi che lavorano entro le aree SIC non sono stati trasferiti parecchie decine di milioni di euro.
Ancora non si affronta seriamente la grana della mafia dei pascoli che danneggia gli allevatori locali. Il problema dei cinghiali non è affare né della regione né del PNGSL: infatti né l’una né l’altro si sono dotati di uno strumento efficace per il contenimento degli ungulati peraltro obbligatorio: il piano di gestione degli ungulati, appunto; questo per la gioia dei cacciatori che così hanno infinite riserve di carne e la disperazione degli agricoltori che seguitano a ricevere pesanti danni. Da qualche tempo poi ci si concentra sui lupi, la stampa ci racconta di branchi che assediano paesi, attaccano animali e terrorizzano l’uomo! E’ vero, i lupi attaccano i capi di bestiame (non l’uomo) quando non sono ben protetti con recinti o cani da guardiania. Ma i lupi stimati in Italia dall’ISPRA sono tra 1800 e 2000, circa 1500 sull’Appennino. Il parco del Gran Sasso Laga ha censito 20 branchi per un totale di 80 – 100 lupi, un po’ più di mezzo lupo a kmq. Nel centro sud si stimano invece 80.000 cani inselvatichiti, circa sessanta volte la popolazione del lupo su tutto l’Appennino, cani molto più pericolosi, spesso più aggressivi e sicuri competitori dei lupi. I cani si considerano inselvatichiti dopo la prima e la seconda generazione di cani abbandonati che poi sono gli animali da compagnia, da caccia o da vigilanza che l’uomo ha abbandonato. E’ molto probabile, anche per il numero delle segnalazioni e come testimoniano numerose ricerche, che quello che sta accadendo, cioè predazioni di giorno nei centri abitati, sia opera dei cani rinselvatichiti che rappresentano anche un pericolo genetico per la popolazione del lupo; questo è il vero problema del quale però si discute raramente e solo tra addetti ai lavori.
Questa approssimazione, questa superficialità, propaganda e spettacolarizzazione non permette di cogliere i veri problemi e quindi proporre soluzioni sostenibili nel tempo, intelligenti e fondate. Gli amministratori locali, nella quasi totalità estranei ai problemi della montagna (spesso e volentieri citano luoghi mai visti e conosciuti), sono sensibili al miraggio di una facile consenso: per un pugno di voti farebbero ogni cosa, e sono sedotti da antiquati modelli di sviluppo. Questa profonda ignoranza li porta a gareggiare a chi la spara più grossa: si parla di riperimetrazioni di zone sconosciute (è stato proposta addirittura la riduzione del Parco nella zona del Chiarino, motivo ufficialmente mai esplicitato, in realtà un favore ai cacciatori); si parla di 4.000 transiti giornalieri sulla funivia, tutti i giorni (come non ricordare i 20.000 passaggi quotidiani previsti della metropolitana di superficie, protagonisti gli stessi amministratori di allora); di 8 mesi sciabili; di innevamento artificiale a impatto zero; di 200 lupi ad Aragno; di 1000 posti di lavoro pronti grazie ad un nuovo impianto di risalita e chi più ne ha più ne metta. Semplicemente è straordinaria l’approssimazione con la quale si dibatte, in tutti questi anni non è stato prodotto un solo studio di fattibilità, di marketing turistico, di analisi dei flussi attuali e potenziali; solo generiche pagine scritte da chi ha competenze “fatte in casa”.
Eppure la vicenda della bocciatura dell’impianto nuove Fontari è emblematica e avrebbe dovuto insegnare qualcosa: quel progetto fu bocciato perché mancante di dati e analisi sull’esposizione ai venti e su altri aspetti tecnici; come ben sa l’attuale amministratore unico del CTGS, che per primo rilevò questi deficit. Nessun complotto dunque ma solo approssimazione e superficialità del proponente. L’esperienza non ha insegnato nulla, propaganda, propaganda e numeri a caso da parte di chi ha amministrato questo territorio per decenni, prima si chiamavano AN ora Lega e FDI.
Un altro concetto ci preme, in conclusione, trattare. In epoca di capitalismo avanzato la natura è divenuto un oggetto da vendere e comprare, da consumare, come tutto ciò che esiste sul pianeta. E’ questa la ragione per cui un territorio incontaminato viene considerato “sprecato”, perché non produce reddito, soldi. L’unico valore riconosciuto è quello economico; eppure i parchi nascevano con Jhon Miur, naturalista e alpinista, in America, come riscoperta e tutela della wilderness, minacciata dall’aggressività dell’espansione urbana e dalla ricerca del profitto a tutti i costi. In Europa i parchi nascono per tutelare e conservare ambienti di pregio, unici e minacciati, e attraverso la zonizzazione prevedono l’esplicitamento dell’attività dell’uomo, nel rispetto della tutela e della conservazione, questo distingue un parco da un’area non protetta. Quella a cui assistiamo oggi invece è l’assalto alle aree protette, la natura diventata un elemento dell’ideologia dello sviluppo, una materia inerte messa a disposizione dell’appetito industriale degli uomini. Da questo atteggiamento che nasce la crisi ecologica planetaria e che ci vede responsabili ognuno nel suo piccolo, ed è per questo che il termine sostenibile andrebbe utilizzato cum grano salis e non appiccicato ad ogni intervento, anche i più impattanti, per addolcirlo.
Naturalmente tutto ciò risulta essere troppo complesso per una classe politica, destra e gran parte del centrosinistra indifferentemente, alla ricerca di consenso a buon prezzo e ormai completamente deculturalizzata; per alcuni portatori di interesse che si trasformano i grandi imprenditori con i soldi pubblici!
Lo spopolamento delle aree rurali e montane, che investe, dalla rivoluzione industriale ad oggi, tutto il pianeta, non solo l’aquilano dunque - a proposito di provincialismo - (si calcola che nel 2050 2/3 dell’umanità vivrà nelle aree urbane), potrà essere affrontato solo con una visione innovativa, fortemente ancorata a dati e analisi, non certo sulla base di sensazionalismi e clientele; i parchi finalmente funzionanti, efficaci, propositivi, attivi potrebbero essere una risorsa immensa dal punto di vista economico e culturale.