Di Enrico Macioci - Donna Tartt, che ha vinto pochi giorni fa il premio Pulitzer con Il cardellino (892 pagg., ed. Rizzoli), esordì nel 1992 con The secret history, tradotto in italiano sempre da Rizzoli col titolo Dio di illusioni. E’ un esordio portentoso (la Tartt aveva appena ventotto anni) e uno strano romanzo, una via di mezzo fra bildungsroman, tragedia greca e thriller.
Ambientato in un esclusivo college del Vermont, parla di cinque ragazzi accecati dall’ammirazione per un professore di greco antico, Julian Morrow, colto, elitario, carismatico ed emotivamente gelido, un incantevole fuoco di ghiaccio.
I ragazzi – quattro maschi e una femmina – seguendo i precetti del professore, decidono in maniera più o meno conscia di basare la propria esistenza su un ideale di bellezza classica ed estetizzante, svincolata da qualunque limite o moralità; e una notte, cercando l’estasi dionisiaca con l’aiuto di droghe e alcol, massacrano un contadino fra i boschi.
E’ solo l’inizio della discesa agl’inferi. Decideranno infatti, stavolta a sangue freddo, d’eliminare l’unico compagno a conoscenza del crimine, e lo getteranno a tradimento in un burrone.
Di lì in poi il libro è una lenta agonia culminante nel suicidio di Henry, capo del gruppo, ragazzo intelligentissimo ma freddo, distaccato, in apparenza (anche in sostanza?) privo d’emozioni; e prima ancora nel tradimento del professor Morrow, il quale scoperto l’assassinio perpetrato dai suoi allievi non si rivela all’altezza delle loro aspettative (specie delle aspettative di Henry), fuggendo e abbandonandoli senza spiegazioni.
Benché l’opera si presti a svariate letture, la più urgente mi sembra quella che riconduce a I demoni di Dostoevskij.
Henry è un palese richiamo a Stavrogin, forse il personaggio più grande e inquietante dello scrittore russo, a propria volta un misto di Iago, Edmund e Amleto; e attorno all’oscuro daimon di Henry, più ancora che al decadente ellenismo del professor Morrow, ruotano i destini dei protagonisti. Potremmo quindi affermare che il romanzo si muova attorno a un buco nero – “la mia vita” afferma Henry a un certo punto “per la maggior parte è sempre stata scialba e stagnante… morta, insomma. Il mondo mi è sempre parso un luogo deserto, ero incapace di godere delle più semplici gioie. Mi sentivo morto in tutto ciò che facevo.”
Questo spiega il carattere perturbante, torbido, opaco e al contempo apocalittico della narrazione, come fosse un’acqua densa sempre sul punto di precipitare nell’abisso (“Stupido terrore. Il mondo intero che si apre alla rovescia. La sua vita che esplode in un tuono di corvi, il cielo largo e vuoto sopra il suo stomaco come un bianco oceano. Poi nulla. Ceppi marci, cimici che si arrampicano sulle foglie cadute. Terra o oscurità.”).
Infine l’abisso si spalanca. Accade quando Henry si spara due colpi in testa; lo si sapeva, anzi lo si sentiva che sarebbe accaduto, che doveva accadere, però la Tartt è incredibilmente brava a dilazionare, a rimandare.
Ma si può rimandare di fronte alla mancanza di senso, al nichilismo di un’intelligenza posta al servizio del Male? E cos’è il Male? Esso non è, pare suggerirci la Tartt, abbandonarsi a una vita immorale; e neppure massacrare un innocente durante un’orgia fra i boschi; e neppure – persino – freddare un amico che sapeva troppo; no.
Il vero Male sta nella pretesa di sganciarsi dalla misura umana, di sperimentare un altrove senza possedere gli adeguati strumenti esplorativi. Platone ha parlato con estrema chiarezza della follia dal dio veniente, distinta dalla follia da manicomio; ma qual è questo dio? Qual è la parte di me che devo attivare se voglio provare a uscire da me stesso senza precipitare in un vuoto fitto di zanne?
Tutti noi viviamo in una gabbia, e tutti noi desideriamo perlomeno a tratti romperne le sbarre. La Tartt ne indica i potenziali rischi, ma non condanna. Ecco allora la libertà e la grandezza delle sue epifanie, che costellano il libro come tanti fiori lungo un prato folto e cupo: “Il sole sbucò improvviso dietro una nuvola, inondando la stanza di una luce meravigliosa, tremula sulla parete al pari d’un riflesso d’acqua. Una dolcezza ineffabile m’invase; per un istante tutto assunse la fluttuante e luminosa consistenza di un sogno. Sentii imperioso il desiderio di afferrare Camilla per il polso ferito, torcerle il braccio dietro la schiena fino a farla urlare, gettarla sul letto: strozzarla, violentarla, non so che altro ancora. Poi la nuvola ripassò sul sole, e la vita si spense in ogni cosa.”