Auditorium del Parco pieno ieri a L'Aquila per la prima presentazione ufficiale del nuovo libro di Annalisa De Simone, Non adesso, per favore, edito dalla casa editrice Marsilio.
Malgrado sia appena uscito, il romanzo della giovane scrittrice aquilana - il suo secondo, dopo l'esordio Sola andata, pubblicato nel 2013 da Baldini & Castoldi - è già diventato un piccolo caso letterario e editoriale.
Dopo aver ottenuto recensioni entusiastiche su alcune importanti testate nazionali - Corriere della Sera, Panorama, Grazia, Il Fatto quotidiano - Non adesso, per favore è stato candidato dalla Marsilio al Premio Strega 2016, dove sarà presentato da Aldo Cazzullo e Roberto Cotroneo.
Di seguito la recensione del libro firmata dallo scrittore (anch'egli aquilano) Enrico Macioci.
L'apocalissi individuale e collettiva di Annalisa De Simone
Annalisa De Simone è aquilana come me (non ci conosciamo, apparteniamo a generazioni diverse), come me scrive e come me ad un certo punto ha voluto (e dovuto?) affrontare per mezzo della scrittura il terremoto che nel 2009 colpì la nostra città. Mentre però io inserisco nella cornice della catastrofe la mia storia e i miei personaggi, lei nel suo Non adesso, per favore (Marsilio, 2016) fa l’opposto: inserisce la catastrofe nella cornice della storia.
Mossa ardita, come ficcare un tirannosauro nella gabbia d’un canarino. De Simone vince la scommessa evitando di cadere nella retorica da una parte e nell’epica dall’altra, con equilibrio ma senza equilibrismi. Il terremoto crepa la lente del racconto senza romperla, e ciò che ne risulta è una visione più sghemba e dunque più profonda. Assistiamo a uno slittamento curioso: un romanzo essenzialmente intimista diventa nella seconda parte anche post/apocalittico, pur rimanendo soprattutto il diario di un’esperienza interiore.
De Simone non smette mai di scandagliare l’animo della protagonista – il cui nome, Annalisa, sembrerebbe condurci dalle parti dell’autofiction, invece a me questo sembra un romanzo “puro”; e nell’analizzare l’ansia d’emancipazione dalla provincia di Annalisa, le sue ambizioni letterarie, le insicurezze sentimentali, le gioie e le sofferenze procuratele dal rapporto col maturo e affermato romanziere Vittorio Ferretti, l’autrice oscilla con sapienza e controllo formale tra disincanto, ironia, scavo psicologico e crudo realismo. I diversi registri si sovrappongono e alternano di continuo ma il loro avvicendarsi non danneggia la coerenza – fluida eppur solida – dell’assieme; del resto, sembra dirci De Simone, non siamo tutti intenti a tirar via bucce prima d’arrivare a qualcosa che somigli a un nucleo di verità?
Quando all’inizio della seconda parte – dopo un capitolo gonfio d’attesa, che descrive benissimo la quiete precedente la tempesta – irrompe la catastrofe, sembrerebbe che il romanzo debba venirne tagliato in due; Annalisa si ritrova in esilio presso la costa abruzzese per non lasciare soli i genitori e la nonna paterna, sfollati da L’Aquila; è dunque lontana da Roma, da Ferretti, dalla società borghese con le sue luci abbaglianti e fuggevoli e false, lontana dagli arrivismi, dalle chimere e dalle illusioni; per la prima volta da anni è davvero sola con la parte più intima di sé; la reclusione forzata si volge in una chance di libertà.
La cesura narrativa fra il pre e il post sisma non risulta traumatica perché De Simone continua inflessibile a tracciare la mappa interiore di Annalisa, auscultandola con un misto di tenerezza, ferocia e pietà. Ora al posto di Ferretti – che va a situarsi sullo sfondo e perde l’aura mitica, riducendosi a uomo comune – c’è il padre a occupare la scena. Tipo duro e affettuoso, ruvido ma fragile, iracondo ma capace d’improvvisi squarci emotivi, egli rappresenta il controcanto dell’autore altero, gelido e remoto (ora anche fisicamente) per cui Annalisa aveva perso la testa. Uso il verbo all’imperfetto: la tragedia e il distacco le donano infatti, assieme alla sofferenza, una nuova lucidità, uno sguardo più limpido sul passato e dunque sul presente e sul futuro. Quello che il terremoto sottrae a livello di memoria – i luoghi, le abitudini, le supposte certezze – lo restituisce sotto forma di brusca maturazione; disinfetta; sradica; pulisce; è come un panno che trascorre su un vetro opaco e consente ad Annalisa di vedere meglio, dal momento che quel vetro è lei stessa.
Il finale, che evito d’anticipare ancorché non ci si trovi davanti a un romanzo di trama, chiude il duplice cerchio: Annalisa recupera il rapporto col padre e anche con Ferretti, col quale imbastisce un incontro alla pari; egli si lascerà infine andare e parlerà davvero di sé e del proprio vissuto, smettendo i panni dell’uomo/dio e aprendo una finestra sulla propria anima, ma ciò non significa che tutto si appiani. La vita è più complessa e sfuggente d’un meccanismo, per quanto raffinato e cerebrale; la vita è un luogo di faglie, scosse, lacerazioni e imprevisti. E poi De Simone ha in serbo una postilla, un’ultima matrioska, un estremo ribaltamento di prospettiva – quanti veli bisogna scostare per riuscire a vedere? Qui però mi fermo: ogni storia ha il diritto di svelarsi solo davanti a chi porta la pazienza d’aspettare ch’essa giunga al termine. Buona lettura.