Sabato, 11 Giugno 2022 19:00

13 giugno 1944, 78 anni fa la Liberazione dell'Aquila dal nazifascismo

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"Mattinata radiosa, aria di libertà. I tedeschi erano andati via, la cittadinanza era gioiosa e l’amministrazione comunale aveva ordinato di innalzare un Arco di Trionfo all’inizio di Corso Vittorio Emanuele e di esporre le bandiere tricolori italiane su tutte le finestre del centro storico della città".

Un testimone dell’epoca racconta così la Liberazione dell'Aquila, il 13 giugno 1944, che segnò l'inizio della nuova storia democratica della città.

I Partigiani arrivarono all'Aquila alla testa del Maggiore Aldo Rasero affiancato da Giovanni Ricottilli, un vero “partigiano gentiluomo”.

Si racconta che la parola “WELLCOME” (scritta erroneamente con due elle) fu corretta in tutta fretta all’arrivo dei liberatori in città.

Il 13 giugno 1944 segnò la fine di dieci mesi di occupazione, sofferenze, atrocità. Eppure, in quelle ore di gioia e concitazione venivano rinvenuti alle Casermette i resti dei Nove Martiri, generando nella popolazione un atroce sentimento di rabbia e desolazione.

Negli anni successivi, quella rabbia divenne l’orgogliosa consapevolezza che la ribellione dei giovani aquilani – quel 23 settembre del ’43, a Collebrincioni – fu uno dei primissimi scontri armati tra civili italiani e invasori tedeschi: praticamente, l’inizio della Resistenza italiana.

Prima di fuggire dall’Aquila, i nazisti avevano lasciato dietro di loro una feroce scia di sangue con gli eccidi di Filetto e di Onna; la città aveva subìto l’umiliante, finta liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e il bombardamento della stazione e della Zecca della Banca d’Italia.

Quel 13 giugno, le prime ad entrare all’Aquila furono le truppe militari italiane: la Liberazione fu il frutto dell’ostilità degli aquilani verso le truppe d’occupazione tedesche e della lotta al nazifascismo di tanti protagonisti della resistenza, di giovani gappisti coraggiosi, dell’azione militare dei partigiani della Banda Di Vincenzo, della Duchessa, di D’Ascenzo. Tanti di quei patrioti – come Mario Tradardi, Giorgio Agnetti e Antonio Rauco – dopo aver liberato L’Aquila, vollero continuare la lotta di liberazione con la Brigata Maiella risalendo l’Italia verso nord, fino a pagare con la vita il loro generoso ed estremo slancio patriottico.

L’Aquila, durante l’occupazione nazifascista, aveva sofferto la fame, i rastrellamenti, l’incubo dei bombardamenti, la paura e il mercato nero, le ronde, l’oscuramento e la feroce tortura per i dissidenti: a Collemaggio, i tedeschi avevano istituito un carcere noto come “la via Tasso aquilana”. Con la liberazione del 13 giugno e la fine della guerra, la città riscoprì la vita e iniziò un percorso di libertà e democrazia che negli anni ha avuto come eredi tanti uomini e donne protagoniste della sua rinascita civile.

L’ANPI dell’Aquila con le sue bandiere sarà lunedì pomeriggio, alle 18:30, in Piazza Palazzo, sotto la Torre civica di Palazzo Margherita dove, da sempre, si ricorda l’anniversario della Liberazione della città.

In occasione di questa ricorrenza, abbiamo deciso di riproporvi l'intervista a Raffaele Colapietra, realizzata tre anni fa, in occasione del 75esimo anniversario.

Colapietra è uno dei più grandi storici italiani, tra gli ultimi testimoni della Liberazione della nostra città. "Il mio ricordo personale di quei giorni è legato ad una situazione particolare", ha raccontato a newstown: "mio padre, medico a Collemaggio, ritenne bene, dopo lo sfondamento di Cassino, allorquando la situazione militare andava chiaramente precipitando, di far ritirare me e mia madre all'interno dell'Ospedale. Non ho visto, dunque, la Liberazione dell'Aquila ad opera di reparti italiani dell'esercito di liberazione: tuttavia, ho vissuto intensamente sia il periodo precedente, quella situazione assolutamente drammatica dettata dall'occupazione militare e dalle difficoltà della guerra, sia la grande ansia di liberazione, la primavera che seguì al ritorno alla normalità, con la città festate e una straordinaria partecipazione collettiva che dava il senso di una vita rinata anche se la guerra non era ancora finita. Mi permetto di rammentare un episodio: era l'agosto 1944, nell'orto di casa di mia nonna in via della Genca sentimmo la radio annunciare a tutto volume che gli americani entravano a Parigi e i russi a Bucarest. Indimenticabile: la guerra si avviava alla fine, ad una fine vittoriosa per la civiltà".

L'Abruzzo soffrì immensamente la guerra, "per il lunghissimo periodo in cui il fronte aveva squarciato il ventre debole della Regione, la bassa provincia dell'Aquila e gran parte della provincia di Chieti che furono sterminati in modo violentissimo, come paesaggio e come popolazione". Pochi giorni prima della Liberazione, lo ricordavamo, l'esercito tedesco aveva fatto strage di civili a Filetto e ad Onna: eventi che Colapietra riconduce "ad una situazione militare di sfacelo: l'esercito tedesco si ritirava con grande rapidità, si attesterà soltanto nelle settimane successive nelle Marche, nell'Umbria e soprattutto in Toscana, e quindi gli episodi truci che ricordiamo sono legati piuttosto al disordine, allo smarrimento delle truppe che o venivano attaccate improvvisamente e si vendicavano in maniera selvaggia, come accadde a Filetto, oppure requisivano con altrettanta indiscriminata durezza come nel caso di Onna".

Nei mesi precedenti, le speranze erano affidate a Radio Londra: "dopo il 25 luglio e, soprattutto, dopo l'8 settembre, si capì che per avere indicazioni certe di come stessero effettivamente andando le cose era necessario ascoltare Radio Londra; come ebbe a dire una giovane donna di Avezzano, i suoni che annunciavano le trasmissioni del pomeriggio e della sera divennero come aria che si respirava: si aveva la sensazione di una speranza, di una realtà che si andava faticosamente realizzando e che lasciava intravedere, innanzitutto, la fine della guerra; si dica con grande forza: non si trattava soltanto della Liberazione dal nazifascismo, ma soprattutto della fine di una situazione che si protraeva oramai da anni e che ha fatto sì, altro ricordo personale, che io, ragazzo di 9 anni, ho finito di vedere la luce elettrica per le strade dell'Aquila nel giugno del 1940 e l'ho rivista nel settembre del 1945, a quattordici anni. E' un ricordo di bambino: pensate che cosa rappresentò la fine della guerra, interminabile, che premeva, opprimeva ogni aspetto della vita quotidiana". 

A L'Aquila, il fascismo negli anni si era identificato con la figura di Adelchi Serena, "il quale non solo come potestà ma, in seguito, come alto gerarca e poi come Ministro dei Lavori pubblici e ancora come segretario nazionale del fascismo, si è sempre interessato profondamente della sua città, dando l'unica prospettiva organica che L'Aquila abbia mai vissuto, indirizzata nei riguardi del Gran Sasso e supportata da un poderoso impianto di tipo sportivo e che sarebbe dovuto essere anche alberghiero ai fini di un turismo di alto bordo che faceva capo soprattutto a Roma. Data l'assenza personale di Adelchi Serena e la mediocrità dei suoi successori, dal potestà Giovanni Centi Colella al segretario federale Luigi Visconti, che altri non era che il cognato di Serena, e dato il venir su di alcuni giovani ambiziosi e spregiudicati, di ottime famiglie del contado, come Tullio De Rubeis ed Emilio Tomassi, giovani che volevano farsi strada, si può dire che gli ultimi anni del fascismo all'Aquila furono più decorativi, di facciata che altro, legati ad una figura tipica dell'epoca, il prefetto Cortese, che lasciò larga memoria di sé, anche per la spettacolarità del suo comportarsi".

Ricorda Colapietra che Cortese, a mezzogiorno, "prendeva l'aperitivo con un lungo corteggio di dignitari; si recava poi in Cattedrale dove, alle 12:15, l'Arcivescovo Confalonieri celebrava messa; dunque, si usciva in corteo e si tornava al Bar Pasqualucci, più noto come Bar Europa, almeno fino a quando c'erano i portici".

La figura di Confalonieri fu molto importante, in quegli anni: "si trattava di un uomo prestigioso, che godeva di un fascino particolare. Come noto, però, aveva perso il carisma e l'autorità di cui godeva ai supremi vertici della Chiesa Cattolica con Pio XI; nel 1940, dunque, venne spedito in città dove restò per un 'decennio aquilano', come intitolerà il suo libro di memorie. Restava comunque una figura suggestiva, magnetica, amante dell'aspetto spettacolare della religiosità: esercitava un grande peso; senza dubbio, è stato - se non un protagonista - un personaggio di prim'ordine nelle vicende della guerra e dell'immediato dopoguerra. Nelle sue memorie, Confalonieri ricorda di aver tenuto una serie di conferenze nella Sala Patini, con le linee direttive, programmatiche della Democrazia Cristiana, uno dei nuovi grandi partiti democratici che sarebbe sorto in città. Che questo programma sia stato stilato da un Arcivescovo, che ci fosse un rapporto così stretto tra Confalonieri e l'organizzazione politica che poi avrebbe avuto un peso enorme sulla vita della città, è interessante: sarebbe importante poterlo approfondire. Che io sappia, i testi sono scomparsi o non si è fatta una adeguata ricerca".

Liberata la città nel giugno del 1944, iniziò un periodo di grande speranza, di grande attività e di grande presenza civica. "Vorrei che in queste circostanze si riesumasse almeno il titolo, e anche i testi - voglio sperare siano rimasti custoditi dalla Biblioteca provinciale - del settimanale Risorgere, il settimanale dei comitati di liberazione, dei partiti antifascisti, di cui aveva la direzione l'avvocato Antonio Borrelli che sarebbe stato molto in vista nelle vicende politiche della città degli anni successivi. Su quelle pagine c'era la cronaca della città che tornava a nuova vita, e vi erano pubblicati dei documenti interessanti, uno dei quali è la relazione sul Consorzio agrario dell'Aquila gestito da un certo personaggio in un certo modo particolare che aveva influssi gravissimi sull'alimentazione, e dunque sulla sopravvivenza della popolazione".

Erano anni di fermento: "ricordo le varie intitolazioni dei giornali, il tono pesante di Ricostruzione - il giornale della Democrazia del Lavoro - e così il corsivo dell'Avanti col punto esclamativo; si distinguevano rispetto alla uniformità pesante, didascalica, della stampa fascista, restituivano un senso di vivacità, di alternanza, penso al gran successo de L'uomo qualunque di Guglielmo Giannini, che nasce proprio nel '44, la protesta di tutti contro tutti, un ragioniere alla testa dello Stato, la forma ribellistica - fine a se stessa - del cittadino sottoposto ad un torchio dalla struttura di potere, un movimento populistico subito venuto meno ma che dava il senso della varietà, dell'articolazione, dell'incertezza che però poteva essere risolta dal voto popolare, dalla presenza dell'elettorato che avrebbe deciso le elezioni amministrative che cominciarono nel marzo del 1946, le elezioni politiche per la Costituente, e il referendum tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946".

Referendum che, all'Aquila, vide imporsi la monarchia, "come in gran parte dell'Abruzzo - con l'eccezione di Teramo e Pescara soprattutto - e come nel resto del meridione, con una spaccatura del Paese che si protrasse a lungo. Il voto del refendum, visto da qui, significa relativamente poco: d'altra parte, L'Aquila è una città conformista, è un dato di fatto: malgrado il temperamento contestativo a parole, è la città più chioccia, più tranquilla, più governabile che ci sia al mondo. In sostanza, votare monarchia significò un atteggiamento di continuità: un personaggio come Vincenzo Rivera fu assai rappresentativo di questa mentalità, di prim'ordine dal punto di vista culturale, umano e civile ma quanto di più tradizionalista si possa immaginare. Rivera era, in un certo senso, l'aquilano medio del 1946". 

Negli anni a seguire, L'Aquila manterrà una "caratterizzazione fortemente burocratica, propria della città per lunghi decenni, in cui è ancora presente, e si estinguerà soltanto nei tardi anni '50, quel ceto artigiano che era stato alle origini del socialismo aquilano, legato alla figura di Emilio Lopardi, eletto tre volte deputato prima del fascismo e che, nel dopoguerra, stava cedendo la leadership al figlio Ubaldo. Si trattava di un socialismo riformista - sottolinea Raffaele Colapietra - fermo su alcune posizioni saldamente democratiche, che aveva fatto sì che le categorie artigiane avessero una loro incidenza nella vita pubblica cittadina. Mi preme ricordare che persino nel 1924, alle elezioni così dette del 'listone', in cui il fascismo cercò attraverso una sistemazione elettorale particolare di ottenere un plebiscito, l'elettorato aquilano votò massicciamente per Lopardi, eletto deputato con una percentuale di voti superiore a quella che l'allora capo del Partito Socialista, e cioé Filippo Turati, ottenne a Milano: parliamo del 33, 34%. Un dato assai significativo. E' l'artigianato, il piccolo commercio che caratterizza la città ancora fino agli anni '50 e che viene rappresentanto, in altra forma, anche da un sindaco del dopoguerra che fu il radicale Carlo Chiarizia, molto più accentuatamente laicista e anticlericale, molto più legato al Partito Comunista di quanto non fosse Lopardi che manteneva una posizione piuttosto autonoma; in quegli anni, ci fu la possibilità di reclutare nuove leve: Nello Mariani entrò giovanissimo nella giunta Chiarizia; anche Lorenzo Natali fu assessore nelle amministrazioni che si succedettero nel primo dopoguerra. All'epoca, in città, c'era un forte attaccamento alla vita amministrativa, più che alla vita politica. Si narra - non so se sia vero, ma sarebbe piuttosto significativo - che il vecchio Lopardi, poi senatore di diritto, avrebbe detto al figlio Ubaldo, che sarà deputato dal 1948 al 1958, di fare la sua carriera romana ma di non lasciare mai il seggio di consigliere comunale all'Aquila, come infatti fece. Tant'è vero che Ubaldo Lopardi fu anche sindaco dell'Aquila, per un breve periodo, nei tardi anni '70. Ora, questo era al tempo stesso una forza e un limite: una forza, perché indicava una attenzione profonda, concreta ai problemi cittadini; un limite, perché la politica veniva vista in una ottica campanilistica che non è sempre la più feconda".

Apertura ad un orizzonte nazionale, insomma, e cura del campanile: "si vede in maniera vistosissima proprio in Vincenzo Rivera, figura di altissimo profilo, professore di botanica, finalmente a Roma dopo aver avuto autorità in periodo fascista come tecnico, nel Partito Popolare prima, di famiglia cattolica di tradizione secolare, e che aveva però una mentalità molto legata alla città. Lo spettro municipale era così forte in lui da poter anche alterare i termini di una valutazione politica complessiva, il che è tanto vero che quando venne sopraffatto dalla più moderna, dinamica e attuale prospettiva politica e organizzativa di Lorenzo Natali non trovò di meglio che uscire dalla Democrazia Cristiana e finire i suoi giorni nel Partito Monarchico Popolare di Achille Lauro, una forma di demagogia indegna di lui, pur di poter dare il suo contributo, importantissimo come noto per la nascita dell'Università ma che, dal punto di vista politico, rappresentava soltanto una eredità del passato. Natali, nel campo moderato, potè far strada rapidamente, già alla fine degli anni '40, a lungo deputato, una situazione di controllo che Nello Mariani potette fino ad un certo punto contrastare con la sua elezione a deputato nel 1958".

Una città burocratica, che risaliva indietro nel tempo, addirittura alla Gran Corte Civile che precedette la Corte d'Appello che i Borboni posero in città nel 1816, oltre alla Prefettura e altre strutture di carattere amministrativo e giudiziario che caratterizzano L'Aquila del dopoguerra in un modo singolare ed in relazione strettissima con Roma; una città che, tuttavia, già dagli anni '50 "percepisce di dover difendere la posizione di 'primato' attribuita dalla tradizione, dal municipalismo aquilano, con le unghie e con i denti; d'altra parte, rispetto a Rivera, altrove c'era Giuseppe Spataro, uomo ben diversamente inserito nel sistema di potere democristiano, notorio antifascista, ai vertici del partito, cosa che non era stata per Rivera: una situazione squilibrata, dunque, con L'Aquila in posizione più debole, sulla difensiva e, come dice il vecchio proverbio francese, 'chi para muore'. La città è tutt'altro che morta, anzi ha affermato il suo ruolo di Capoluogo con la nascita delle Regioni: tuttavia, in quella forma incerta e approssimativa che non è stata mai completamente risolta".

Anni dopo, in sostanza la città non ha modificato il suo tessuto economico e sociale - Colapietra ne è convinto - fatto di piccolo commercio e di artigianato, come era prima del boom industriale. "Ci sono stati dei momenti di grandissima importanza, legati alla presenza industriale di un proletariato operaio, attivo, in buona parte femminile, che impegnava migliaia e migliaia di lavoratori, passati senza lasciare memoria di sé; i vent'anni che hanno caratterizzato l'industria in città ci sono stati ma è come se non ci fossero stati, rappresentano una parentesi. In città, la presenza industriale non è stata considerata nel giusto valore, piuttosto come modo per far quadrare meglio il bilancio familiare, senza comprendere che, invece, cambiava la mentalità, il modo di vita, l'organizzazione stessa della famiglia e della società che non era più quella della bottega ma quella cittadina e del comprensorio. Pensi che a L'Aquila, tra il 1908 e il 1913, si insediò il cotonificio Tobler in cui erano impiegate 800 donne: non se ne ha più memoria. Come se non ci fosse mai stato. Il fatto che l'acqua scorra sopra un superficie che resta impermeabile, in una forma tutt'altro che dinamica, è un grosso problema di educazione politica e civile su cui anche le vicende dei partiti influiscono fino ad un certo punto: la responsabilità probabilmente è della conoscenza civica, adagiata su certi stereotipi e non in grado di rinnovarsi". 

 

Ultima modifica il Domenica, 12 Giugno 2022 17:52

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