Continua il viaggio della penna magica Ford Prefect nel controverso mondo degli anni Ottanta. Terminata la rubrica "Praticamente Innocua - Viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma", il nostro ha intrapreso un altro interessante racconto a puntate sul decennio delle meraviglie e dell'apparenza. La puntata di oggi, dopo l'episodio_0 di presentazione della rubrica, si chiama "Ventisette rosso", e rappresenta solo la prima di due parti. Buona lettura.
Come abbia fatto uno sport oltre i limiti per natura come l'automobilismo a sublimare in un pacchetto televisivo patinato, propinato sapientemente lungo l'intero fine settimana attraverso una ritualità da talent show, un meccanismo ad orologeria fatto di conferenze stampa e dichiarazioni ben calibrate, di orari per il pubblico e liturgie televisive, è cosa che desta meraviglia.
Come facciano questi pazzi scatenati, che si guadagnano (lautamente) da vivere rischiando l'osso del collo davanti a milioni di pigri telespettatori pantofolati, a scendere da quelle astronavi con le ruote e calarsi perfettamente nei loro personaggi messi a punto da esperti dell'immagine e veicolati da staff di comunicatori, portavoce e uffici stampa è questione che non riesco a digerire.
Come faccia questo mondo colorato e intrinsecamente folle a "normalizzarsi" a questo modo, come calandosi nel copione di un format della Endemol, mi stupisce e, diciamola tutta, mi irrita. Mi irrita perché le corse alle quali mi sono appassionato da bambino non erano popolate da smaglianti staffisti dal comunicato facile pronti a creare e smontare ad arte amicizie e rivalità.
Questo è venuto dopo, quando si è finalmente messo a fuoco il potenziale economico di questo sport e gli appassionati sono stati inquadrati nel loro ruolo di mucche da mungere, esattamente sullo stesso piano dei fan di X-Factor o dei clienti dei mall.
Negli anni Ottanta non era così.
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La Formula 1 degli anni Ottanta, soprattutto della prima metà del decennio, prima cioè che la Honda decidesse di investirci un budget che avrebbe risanato il bilancio del Bangladesh, era un'attività ai limiti dell'accettabilità sociale, meno politically correct delle lotte tra i cani, meno sicura della roulette russa, meno ecosostenibile dell'Enola Gay. Era un circo di esseri che vivevano, oltre a correre, in maniera estrema, come se non ci fosse non solo un domani, ma neanche una tarda serata. I piloti erano grumi di emozioni e sangue pulsante che salivano su proiettili di metallo pesante e materico, e si lanciavano su dossi e curve senza vie di fuga tra miasmi venefici di benzine dopate e odore di olio esausto. Il loro corpo era il loro strumento di lavoro, lo rischiavano ad ogni gara, lo tappezzavano di toppe cucite con sopra i nomi di sponsor ai quali li legava spesso un contratto firmato al bar. Lo sfinivano di sregolatezze, alcol, fumo, sesso e ancora velocità. Spesso lo danneggiavano, a volte in maniera irreversibile. Qualche volta lo lasciavano inerte nell'abitacolo, dopo aver perso l'ultima sfida con la sorte.
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Sabato 8 Maggio 1982, ore 13 e 52. Sul circuito di Zolder mancano otto minuti alla fine delle qualifiche del Gran Premio del Belgio. Gilles Villeneuve, sulla rossa Ferrari 126-C2 numero 27, prova a tirar fuori gli ultimi giri buoni della sessione per migliorare il suo ottavo tempo provvisorio. Soprattutto per mettere la sua macchina davanti a quella del compagno di squadra, il francese Didier Pironi, ormai diventato il suo più acerrimo nemico, che al momento è sesto e più veloce di lui di un solo decimo. I due, fino a poche settimane prima amici fraterni, non si parlano dal precedente Gran Premio di San Marino e la frattura tra loro sembra insanabile. Negli occhi di tutti i tifosi l'immagine del podio di Imola, due domeniche prima, con Pironi sul gradino più alto e Villeneuve, secondo, che non lo degna di uno sguardo, l'espressione terrea.
Villeneuve sgomita nel traffico alla ricerca della linea più veloce. Come sempre, non si fa particolare scrupolo di azzardare molto oltre il buon senso, e il suo bolide sguscia tra quello degli avversari come un toro imbufalito in un encierro andaluso. Lanciato come una palla di cannone, il piccolo canadese imposta al limite la traiettoria della "Butte", un curvone a sinistra che precede la doppia a destra della "Terlamenbocht", fiondandosi in mezzo al traffico rallentato di fine sessione. Davanti a lui, la March numero 17 di Jochen Mass.
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Oggi che i campioni, di ogni sport, sono macchine da soldi le cui singole attività sono progettate a tavolino e intorno a cui ruotano interessi stratosferici, oggi che sono assistiti ad ogni passo da squadre di esperti di comunicazione che dettano i tempi per gli autografi, le interviste, i talk show e le polemiche montate ad arte, è difficile raccontare una figura autentica e poetica come quella di Villeneuve, e inserirla nel contesto in cui agiva, un microcosmo vitale, sanguigno, ruvido, squassato da passioni viscerali. Un mondo che conosceva parole come lealtà e tradimento, amicizia e odio. E' come spiegare la fiorentina in un mondo di fast food.
Ci proviamo lo stesso.
Gilles Villeneuve era nato a Richelieu in Quebec, Canada, nel '50, anche se temendo di essere considerato troppo vecchio al momento del salto in Formula 1 dichiarò di essere del '52 (chissà come avrebbe fatto con Wikipedia...). Minuto e sorridente, lo avresti detto il tipico vicino di casa che la domenica lava la macchina e taglia l'erba in giardino. Questo finché non saliva su un qualsiasi oggetto dotato di propulsione. Allora il ragazzo della porta accanto si trasformava in un indemoniato capace delle acrobazie più estreme.
Era un tipo che per correre avrebbe fatto di tutto. E, in larga parte, lo fece. "Arrivò a casa e disse: «Ho venduto la casa per comprare una macchina»", raccontò una volta la moglie Joann Barthe, complice e vittima della sua passione per il motorsport. Con lei, che aveva sposato a vent'anni, e con i due figli Jacques e Mélanie il piccolo canadese girava in camper per i circuiti di mezzo mondo, portando in giro il rovesciamento dello stereotipo della famiglia media.
Cominciò a correre con una Mustang modificata nel circuito drag nord americano, ma la cosa lo annoiò presto. Si diede allora alle motoslitte, categoria molto in voga sui ghiacci canadesi nella quale divenne in breve tempo un vero asso, insuperabile, vincendo tutto quello che c'era da vincere e trovando così il modo di sbarcare il lunario per un po'. Di quel periodo raccontò:
"Quelle cose scivolavano un bel po', il che mi ha insegnato qualcosina sul controllo. E la visibilità era terribile! A meno che non fossi in testa, non riuscivi a vedere niente, con tutta la neve che soffiava intorno a te. Una buona cosa per i riflessi - e che mi ha tolto qualsiasi paura di correre sotto la pioggia".
Le motoslitte gli permisero anche di ottenere le sponsorizzazioni necessarie a continuare con la sua vera passione, le quattro ruote, e negli anni dal '73 al '77 inanellò una serie di successi in Formula Ford e Formula Atlantic.
Proprio nel '77, il primo vero appuntamento con il destino. Partecipa al Gran Premio Trois Rivieres, una gara di Formula Atlantic non valida per il campionato alla quale sono invitati molti top driver della Formula 1, tra cui il campione in carica, il velocissimo e sregolatissimo James Hunt. Villeneuve vince proprio davanti a Hunt che resta molto impressionato dal giovane canadese e lo propone alla sua squadra, la McLaren, che decide di offrirgli la guida di una vettura per cinque gare del Campionato Mondiale di quell'anno.
Gilles parteciperà con la McLaren solo al Gran Premio di Gran Bretagna, arrivando undicesimo e facendo una certa impressione sul pubblico e sulla stampa, ma il team deciderà subito di mollarlo.
Quella che poteva sembrare la fine di un sogno si rivela invece il prologo per il secondo appuntamento con il destino. Il canadese si è ormai fatto notare e dalla Ferrari arriva l'invito per un test sul circuito di Fiorano.
Quando, il giorno della prova, Villeneuve incontra la leggenda vivente, Enzo Ferrari, quest'ultimo è come folgorato da una sensazione di dejà vu. Come racconterà in seguito, quel piccoletto gli ricorda in maniera impressionante un altro mezzo tappo con una certa dimestichezza con la velocità, quel Tazio Nuvolari che ancora oggi è l'inarrivabile pietra di paragone di qualsiasi campione su quattro ruote, e alla cui memoria Ferrari è rimasto legato in maniera indissolubile.
Il test non va un granché, i tempi restano alti e magari la cosa potrebbe anche finire lì con un "arrivederci e grazie". Ma il Drake è uno che di piloti se ne intende come nessun altro al mondo e sa intuire le capacità senza guardare solo al cronometro. Così, contro qualsiasi logica, offre un contratto a Villeneuve per le ultime due gare del '77 e per l'intera stagione '78.
Gilles dirà in seguito: "Se avessi potuto esprimere tre desideri, il primo sarebbe stato correre, il secondo correre in Formula 1 e il terzo correre per la Ferrari".
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Quando Jochen Mass vede arrivare negli specchietti Villeneuve, si rende conto che il canadese sta cercando il tempo e pensa a scansarsi, muovendosi sulla destra del tracciato. E' un punto mediamente veloce, normalmente lo si percorre a poco più di 200 all'ora, ma Mass è molto più lento in quel momento perché non sta facendo il tempo per la qualificazione.
Per anni si parlerà della correttezza o meno della sua manovra. Quello che è certo è che la sua intenzione era di dare pista libera a sinistra, in maniera da lasciare a Villeneuve la possibilità di impostare la linea per la "Terlamenbocht" come avrebbe fatto chiunque. Ma il canadese non è chiunque, ha solo otto minuti per superare Pironi e quando vede Mass procedere lentamente davanti a lui ci mette un lampo a decidersi per una traiettoria pazzesca, e si sposta sulla destra anche lui.
[Continua]