Martedì, 17 Marzo 2015 17:42

Retromania, gli anni '80 secondo Ford Prefect / 3 - Le serate di Mamma Rai

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Eccoci alla terza puntata di Retromania, gli anni Ottanta visti dalla penna di Ford Prefect. Conosciuto ai lettori per l’amatissima rubrica "Praticamente Innocua - Viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma", questa volta Ford Prefect lascia il capoluogo abruzzese per riportarci indietro nel tempo. Per la puntata di oggi, "Le serate di Mamma Rai", si spengono le luci e si accende la tv. Buona lettura [qui tutte le puntate di Retromania]

Disfatto sul divano come una polenta sulla spianatora tartasso il telecomando per cercare qualcosa da vedere.

Salto a pie' pari i canali cosiddetti "generalisti", che snobbo da quando il satellite ha fatto il suo ingresso trionfale a casa mia. Sorvolo quindi compiaciuto il limbo dei pacchi, della tv del dolore, del tronismo nelle sue varie accezioni e dello sguardo intenso di La Russa mentre farnetica di flussi migratori e tossicodipendenze in torpidi telesalotti. Un rigurgito di serietà mi impone un passaggio appena più accorto sui principali network d'informazione, ma il delitto del giorno non mi appassiona e le elezioni in Belgio stentano a scalare l'hit parade delle mie preoccupazioni principali.

Mi perdo per infiniti quarti d'ora tra il florilegio dei canali tematici, sfiorando scene del crimine, gare di pasticceria, documentari sull'opossum albino, peppepig, western classici appena riesumati dalla naftalina, tremendi film d'azione dall'estremo oriente, reality sulle gravidanze di puerpere obese, storie di famiglie hamish alle prese con l'invasione della modernità.

Canali evidentemente concepiti per maniaci terminali replicano classici degli anni Cinquanta e addirittura partite di calcio in bianco e nero, con commentatori (odierni) scossi da inspiegabili slanci di entusiasmo ex-post che si esaltano, quarant'anni dopo, per un palo di Bettega.

Rimbalzo sull'offerta infinita dell'on demand, tra retrospettive su Kurosawa e rassegne sulla commedia italiana ai limiti del completismo, con semisconosciute serie di nicchia su zombie vampirizzati fianco a fianco a "Ultimo Tango a Zagarolo". Scorro con attenzione calante i canali di sport, dove spazzolatori di ghiaccio, snookeristi, doppisti di badminton, kickboxer asiatici e quarterbacks americani si confondono in un melange sportivo sovrastato dalle solite quindici trasmissioni sul calcio, compresa l'imprescindibile semifinale del trofeo Beretti e l'approfondimento sul calciomercato tedesco.

Spengo la tv, sbuffo e mi alzo. Anche stasera, niente da vedere.

All'inizio degli anni Ottanta il palinsesto televisivo della prima serata era scandito da ritmi da almanacco, come la tavola dell'Italia postbellica. Insomma, l'equivalente catodico del "giovedì gnocchi".

I tre Canali del Servizio di Stato dispensavano dall'etere la scelta unica (nei fatti) per le serate degli italiani, mietendo share che oggi farebbero infartuare i responsabili dei palinsesti.

Il lunedì c'era il film. Il Primo Canale alleggeriva il rientro al lavoro degli italiani allietando la serata di inizio settimana con un campione selezionato della settima arte. Le onde di Mamma Rai sciabordavano negli apparecchi della penisola pellicole datate a volte anche decenni, che nondimeno tenevano incollata l'intera Nazione per due ore buone.

A mille anni dall'avvento della pay-per-view l'offerta prediligeva polpettoni di cappa e spada alternati a polizieschi discutibili e western riempitivi. Con alcune notevoli eccezioni, vere e proprie perle da sala d'essai. E quindi tra gangster e Zorro facevano a tratti capolino Visconti e Fellini, con una libertà di programmazione che solo il dominio monopolistico della Televisione di Stato e una buona dose di schizofrenia potevano giustificare.

Martedì e venerdì, poca roba. Forse per un'estensione superstiziosa del noto detto su Venere e Marte, forse perché la forma mentis parrocchiale imperante suggeriva che, insomma, non è che tutte le sere potesse essere una festa.

Mercoledì o giovedì, in base alle annate, c'era il quiz. E il quiz, per decenni, in Italia ha avuto un nome e un cognome.

Mike Bongiorno godeva, a inizio Ottanta, dello status di leggenda vivente. Gli anni d'oro del quiz del dopoguerra erano ormai lontani, ma il Michelone nazionale ne riproponeva la formula in un caleidoscopio di varianti sul tema. Di lì a qualche anno il nostro sarebbe stato tra le prime illustri prede dell'ascesa berlusconiana all'etere, il che gli avrebbe donato una seconda giovinezza e rinnovato slancio. Ma prima, il mago della busta chiusa celebrava sugli altari Rai la sua liturgia settimanale fatta di notai, vallette, domande sul calcio, umorismo stratrito e common sense da uomo della strada, il tutto punteggiato da excursus anglofoni e tragiche gaffe. Un minestrone sempre uguale ma declinato in milioni di salse e comunque costantemente premiato da decine di milioni di fedeli telespettatori.

Ma era al Sabato che la Dea Tivvù trasfigurava in tutto il suo splendore. I resti delle cene venivano sparecchiati con inusitata solerzia, i tinelli si soffondevano della luce di milioni di abat-jour e lo scrigno catodico si apriva sfolgorante, colmando milioni di occhi della meraviglia dello spettacolo degli spettacoli: il varietà del sabato.

Trasposizione televisiva della Fiera delle Meraviglie, il varietà del sabato trasferiva sul grande schermo l'assoluto dello spettacolo, la summa dell'intrattenimento, bandolo estremo di una lunga linea rossa che nei secoli aveva abbracciato i ludi gladiatorii, il circo, la lanterna magica, la mostra dei fenomeni da baraccone, l'operetta, il vaudeville, il can-can.

Corroborato dal potente mezzo televisivo, che gli apriva palcoscenici impensabili solo qualche decennio prima, il grande spettacolo del sabato sera era nei primi anni Ottanta la chiosa definitiva sulla settimana uscente, su cui lasciava una coda di lustrini, paillettes, musiche e luci sfavillanti. 

Era abbinato, come si diceva allora, alla Lotteria Italia, oggi annichilita da Superenalotti, Gratta e Vinci e altre forme di eutanasia finanziaria legale, ma al tempo splendida dispensatrice di cifre faraoniche, che il sei Gennaio accompagnava il Grande Varietà alla conclusione chiudendo baracca e burattini sul palinsesto invernale.

Tante sono state le incarnazioni del sabato sera della Rai. A inizio decennio la coppia Mondaini-Vianello dava alla serata un taglio, superfluo dirlo, brillante (a partire dal titolo: "Io e la Befana", che doppiogiocava tra la Lotteria del sei Gennaio e lo stereotipato rapporto di coppia media dei due personaggi televisivi), poi l'avvento di Corrado prima e Pippo Baudo poi consolidarono, con le varie edizioni di Fantastico, un approccio più generalista, con ballerini biondissimi e muti di spalla alla subrette di turno, fosse la giovanissima Heather Parisi, o la coppia bionda-mora Cuccarini-Martines, fino alle episodiche riapparizioni di simulacri semoventi come le ultime Kessler o la rediviva Carrà.

Balletti, ospiti, chiamate alla ribalta dei personaggi del momento, ammiccamenti sempre più evidenti ad un pubblico via via più tramortito fecero degenerare, con il contestuale avvento della televisione commerciale, le serate verso il filone che l'allora presidente RAI Enrico Manca battezzò felicemente "nazional-popolare".

L'unica cosa che personalmente mi teneva incollato allo schermo tra tutta questa chincaglieria televisiva erano gli schetch comici. Notevoli per esempio, e a dirlo oggi sembra proprio strano, i lunghissimi interventi a Fantastico di Beppe Grillo che ogni settimana riduceva un'intera nazione alle lacrime dalle risate. I meetup erano di là da venire.

Negli anni ci furono diversi tentativi di infrangere la rigidezza del palinsesto serale Rai.

Approfittando dei periodi di "bassa stagione", esperimenti estemporanei portarono ventate di novità sul piccolo schermo. Fecero la loro comparsa i quiz "alternativi" di Loretta Goggi, che cercò di scombinare l'impostazione seriosa di Bongiorno buttandola sulla risata e sul sovvertimento delle regole classiche. Arrivarono i viaggi comico-deliranti di Grillo ("Te la do io l'America" e "Te lo do io il Brasile" sono veri archetipi di cosa si può osare in televisione). Ci si spinse addirittura a programmi al limite della censura (per la mentalità perbenista del tempo) come "No-stop". Si arrivò ad invadere lo spazio tabù della domenica sera con il contro-varietà di "Ci pensiamo lunedì", rocambolesco contenitore nel quale sabotatori catodici come Renzo Montagnani e Alida Chelli dissacravano con pervicacia gli stereotipi dello spettacolo classico.

Insomma, la granitica impostazione della televisione di Stato cominciò a scricchiolare, come l'Impero Romano all'arrivo dei barbari. Barbari che, di lì a qualche anno, si presentarono all'orizzonte con donnine discinte e stendardi con il biscione. Ma questa è un'altra storia.

Riprendo in mano il telecomando e mi accingo ad un nuovo giro sfinente dei millemila canali. Mentre vortico tra le programmazioni come un moderno Ulisse satellitare, un fotogramma in bianco e nero cattura per un decimo di secondo la mia attenzione.

Torno indietro di un paio di canali, ritrovo il programma.

Davanti a un Teatro delle Vittorie gremito di facce d'altri tempi, un occhialutissimo Pippo Caruso conduce la sua orchestra tra le pieghe di un orecchiabile intermezzo da varietà. Un corpo di ballo castamente agghindato disegna elementari coreografie intorno ad una ventenne bionda e sorridente, con un atleticissimo partner attento a non rubarle la scena.
Chissà quale pezzo di repertorio sono andati a ripescare.

Vediamo un po'...

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