Di Enrico Macioci* - Mysterious skin (uscito in America nel 1995, pubblicato in Italia da Playground nel 2007 e ora riedito), romanzo d’esordio di Scott Heim, è uno strano arnese narrativo. Se l’aggettivo non fosse inflazionato me la caverei sostenendo che è “perturbante”; provo invece a spiegarmi meglio.
Mysterious skin è limpido e opaco; è rude e poetico; sbrigativo e profondo; dolcissimo e crudele.
Questa natura contraddittoria è certo dovuta alla scelta di raccontare la medesima vicenda da un duplice punto di vista – quello di Brian e quello di Neil, i due bimbi di otto anni violentati entrambi dall’allenatore di baseball che reagiscono in maniera opposta al trauma; Neil lo idealizza fino a trasformarlo nell’unico vero amore della propria vita (“A volte, la sola cosa a cui penso sono i momenti passati con lui. Come se io e lui fossimo l’unica cosa davvero importante. Nei miei sogni migliori c’è lui e nessun altro. Ci siamo solo noi due, sospesi nelle sue stanze pregne di odore di zucchero, come se Dio avesse proiettato un raggio di luce sul Kansas centrale e io e l’allenatore ci fossimo capitati dentro per caso”); Brian viceversa lo rimuove fino a ritenersi vittima d’un rapimento alieno (“E’ incredibile cosa sanno le persone. E’ solo che non dicono nulla, negano le cose a se stesse, perché non vogliono crederci” rifletterà quando infine giungerà a comprendere).
Ma non è tutto qui. La figura dell’allenatore, che compare in carne ed ossa solo all’inizio per poi sparire, incombe sull’intera vicenda come un fantasma; Neil ci ripensa spesso, Brian lo percepisce subito dietro la parete della memoria, un mostro senza volto che lui s’ostina a identificare con gli ufo; e la presenza dell’uomo dai baffi biondi e il fisico atletico diviene uno dei più spaventosi simboli del Male in cui mi sia imbattuto nelle mie letture.
La sua prossimità, la sua familiarità sono sconvolgenti; ci fanno toccare con mano che il pericolo è davvero sempre al nostro fianco e al fianco dei nostri figli, che anche in pieno giorno (lo sport, le squadre, le partite, i ragazzini) può celarsi la tenebra più fitta. In tal senso l’allenatore mi ricorda un altro orco della letteratura moderna, il tranquillo signor Harvey che in Amabili resti di Alice Sebold violenta e fa a pezzi la piccola protagonista sua vicina di casa.
In effetti Mysterious skin e Amabili resti si somigliano: trattano la violenza più bieca – quella sui minori – senza reticenze ma senza morbosità, riuscendo per giunta nel miracolo di ricavarne squarci di poesia e commozione, lembi di sereno fra le nuvole, come se davvero dopo l’inferno possa esistere una salvezza, da qualche parte che noi non possiamo neppure immaginare.
Oltre alla glaciale fissità del rimosso, un secondo punto di forza del libro è il diario del quotidiano, lo nota Sandro Veronesi nell’acuta postazione. Heim descrive scene ordinarie con dolente nostalgia, con tocchi tenui ma perfetti: una battuta di pesca, una gita in montagna, una telefonata, un litigio, una sera davanti alla tv. A ciò alterna poi scene forti, improvvise come pugnalate: la barbara uccisione di una tartaruga, lo scherzo crudele ordito da due ragazzi ai danni d’un compagno disabile, la violenza subita da Neil maggiorenne durante una delle numerose marchette di cui campa.
Tale alternanza fra la calma piatta e lo scatenarsi del primordiale contribuisce molto al sottile disagio indotto dal libro; è in sostanza un libro che non permette mai di rilassarsi, un libro di cui non ci si può fidare; ma a mio giudizio è un libro morale.
Chiudo con due appunti. La scena più memorabile è forse quella in cui si consuma il primo rapporto fra l’allenatore e Neil, il giocatore più bravo, il bambino più bello e più dotato della squadra; stanno distesi sul pavimento invaso dal sole, in mezzo a sacchetti esplosi di cereali e caramelle: “La luce della cucina metteva meglio a fuoco i peli biondi e fini che uscivano ricci dal colletto della sua maglietta. L’ombra più scura dei baffi. Le basette, tagliate proprio al livello dei lobi delle orecchie. I piccoli raggi color rame che circondavano ognuna delle sue pupille nere. E, dentro quel nero, il riflesso del mio viso.”
Di rado mi sono imbattuto in qualcosa di così ambiguo e scivoloso – quasi come se Heim tentasse di renderci piacevole la violenza dell’adulto sul bambino, di persuaderci che anche nel male più efferato può nascondersi una goccia di bene, anche in Lucifero un frammento di Gesù. In realtà Heim si limita ad illustrare, con un linguaggio preciso come un bisturi, ciò che può accadere. E ciò che può accadere è anche schifoso e assurdo e senza senso.
La scena più debole invece è quella in cui Neil e un amico durante un bagno vengono aggrediti dalle sanguisughe; qui Heim echeggia (di sicuro consapevolmente) la celeberrima scena del kinghiano Stand by me, ma sbaglia; non si cita una fonte tanto illustre con leggerezza, se lo si fa occorre impegnarsi nell’agone e provare a metterci del proprio, un accenno e via serve solo a riportarci in mente l’originale e a farcelo ritenere migliore della copia.
*Enrico Macioci, scrittore, è nato all'Aquila nel 1975. E' autore dei romanzi L'alba (ed. Tracce) e La dissoluzione familiare (Indiana editore) e della raccolta di racconti Terremoto (ed. Terre di mezzo). Vive a Salerno.