Lunedì, 09 Febbraio 2015 15:37

Libri: "Nel centro della regola", il salto mortale di Giuseppe Martella. Venerdì all'Aquila la presentazione

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Di Enrico Macioci - Nel centro della regola (Collana Perle poesia, Giuliano Ladolfi editore), l’ultima silloge di Giuseppe Martella, ruota attorno ad alcune ossessioni ben precise: la nostalgia dell’infanzia o comunque di un tempo più giovane e puro, il senso tormentoso del limite (“se trovo il margine lo sfido”), il martellante istinto del ritorno (verso dove? Verso quale luogo perduto?), l’impossibilità tragicamente attuale di trovare le parole per esprimersi, per stare al mondo e abitarlo da esseri umani.

Risulta arduo però districare i suddetti temi poiché spesso appaiono intrecciati come fili d’un gomitolo, anche in liriche di pochi o pochissimi versi; la sintesi è una delle doti più palesi di Martella: “Tutto questo disastro non dà pace, non/ ne ha, non trova casa, non ci riporta nel sigillo./ Né basta la parola – non basta mai, non basta/ a se stessa – e l’infinito scompare nel poco./ I tetti, puntuali, hanno perso memoria,/ sono franati, ci hanno definito.” Qui c’è già ogni cosa: l’angoscia per un mancato rimpatrio (“l’anima è straniera sulla Terra” cantava il grande Trakl), la mancanza di spazio interiore, l’avvicinarsi minaccioso d’un recinto che potrebbe essere la morte ma che forse è peggio della morte, è la negazione del significato, l’annichilimento della prospettiva, un lager metafisico in cui ciascuno di noi sta in trappola.

Tuttavia nel costante viluppo di queste liriche tanto dense il tema che più ricorre è l’afasia, un’afasia prima ancora spirituale che verbale, più ontologica che logica o razionale. “Non parla, ascolta, e se parla/ è per ritrovarsi nel saluto”; “E tutto riesce a fuggire,/ solleva furie, asfalto, chiede/ un alfabeto del mondo”; “Voci accese,/ in cammino, voci nel silenzio, inabissate…”; altrove la parola viene definita a più riprese “obliqua” e gli oggetti o i sentimenti si ribadiscono “non definibili”, quasi che la cosiddetta realtà sfugga oramai fra le maglie slargate del linguaggio come sabbia fra le dita. Qui Martella percorre con ambizione e rischio la via più ardua e feconda della poesia moderna, il tunnel di tenebra compressa che parte da Holderlin e dalla sua follia, passa per l’inquietante silenzio di Rimbaud, poi per l’impotenza del Lord Chandos di Hofmannsthal e sfocia infine nelle lacerazioni di Trakl e Celan, nel modernissimo avvitarsi del canto su di sé, nel suo strozzarsi al cappio della ragione o non ragione d’essere. Martella quindi, come ogni vero poeta odierno è costretto a fare, si pone la domanda delle domande: ha senso che io scriva ciò che scrivo? E dopo: ha senso che io scriva? E in assoluto: ha senso scrivere?

E’ specialmente Celan (e un certo De Angelis) a risuonare nelle liriche più oscure e suggestive con una vibrazione occulta, una sorta di richiamo ad angosce fonde e senza nome che percorrono sotterranee il terreno poetico: “Hai lisciato la nuca,/ contato i tuoi capelli, hai raccolto le ali/ della tortora. Ora le chiavi non seguono alcuna/ variazione, nella conchiglia non è rimasto/ più vino. Ma tu provi, provi questo/ e altri esercizi di eternità.” O ancora: “Lunedì, scoperta dei ritorni,/ ma tu non andare, segnami un tempo,/ aspetta fino a quando l’acciaio sarà tenuto/ nella promessa. Non ho pace, la pioggia/ mi viene incontro lungo le scale/ dentro il pericolo. Tu stringi i miei grani,/ separa la falce, separami dal suo regno,/ ritrovami rosario, neve sporca, medicina.”

Il balzo decisivo che Martella compie per rialzarsi dal letto della disperazione è quello che hanno sempre compiuto i poeti, e cioè il ritrovamento improvviso e anzi imprevisto della bellezza (gratuita e dunque miracolosa), la bellezza tersa della lingua e delle immagini che essa è in grado di creare, una bellezza che è già cura, che misteriosamente risana la ferita, tramuta il sangue in oro; in questo salto mortale il vuoto rivela un grado ulteriore di verità che in genere ci sfugge, mentre la mancanza di senso si tramuta quantomeno in una denuncia e a volte in un limpidissimo incanto, “in una cartolina più a sud/ del mare, nel letto di una vena.”

Il libro sarà presentato venerdì 13 febbraio, alle ore 18:00, presso la Libreria Colacchi, all'Aquila (via Enrico Fermi, centro commerciale Amiternum). Insieme all'autore saranno presenti Enrico Macioci e Alessandro Chiappanuvoli.

*Enrico Macioci, scrittore, è nato all'Aquila nel 1975. E' autore dei romanzi L'alba (ed. Tracce) e La dissoluzione familiare (Indiana editore) e della raccolta di racconti Terremoto (ed. Terre di mezzo). Vive a Salerno.

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