Chiunque possegga un temperamento romantico e incline a idealizzare persone, luoghi o tempi lontani, dovrebbe leggere e rileggere "Il grande Gatsby", all’infinito; ma in realtà tutti dovremmo leggerlo e rileggerlo perché si tratta del romanzo più perfetto della storia della letteratura. So di sbilanciarmi parecchio, e specifico che col più perfetto non intendo né il più bello né il più grande – affermazioni del resto assai vaghe – bensì il più preciso, il più nitido, quello con la migliore messa a fuoco – certo aiutato dalla lunghezza breve, appena centosessanta pagine.
Ma cos’è la messa a fuoco? Direi così: un romanzo sta a fuoco quando l’aderenza fra ciò che racconta e il modo in cui lo racconta risulta assoluta, talché le parole divengono tutt’uno col mondo che creano, permettendoci di viverlo in totale naturalezza.
Stilisticamente "Il grande Gatsby" è un prodigio di sfumato, psicologicamente un portento di acume; se aggiungiamo una storia avvincente, una struttura superba e un protagonista indimenticabile e mescoliamo con cura otteniamo un miracolo, un’opera che Fitzgerald (a ventinove anni) scrisse in uno stato di grazia che il suo enorme talento non aveva mai conosciuto prima né conobbe mai più dopo.
In realtà oltre a Gatsby, e a un gruppo di figure molto riuscite, c’è un altro personaggio cruciale: Nick Carraway, l’oscuro e discreto narratore. Mi vien da pensare a Gatsby e Carraway come a Don Chisciotte e Sancho Panza. Gatsby né più né meno del cavaliere dalla triste figura è pazzo, sognatore, malinconico, indomito e ambizioso; ed è innamorato della donna sbagliata. Daisy – egocentrica, immatura e priva di coscienza – è moralmente disgustosa e quindi, in teoria, non degna di suscitare la passione smodata che un uomo notevole come Gatsby nutre per lei; ma quando mai le nostre più ardenti passioni si dirigono verso oggetti che davvero le meritano?
A ben riflettere è giusto che Gatsby finisca in rovina dal momento che, come sempre accade, non è l’amore per un’altra persona a travolgerlo bensì un elemento che egli custodisce già dentro di sé, un cancro spirituale che gli corrode l’anima.
Ecco il nucleo significante del romanzo: forse l’illusione (simboleggiata dalla luce verde che occhieggia sul molo di fronte alla dimora di Gatsby) è necessaria per vivere, ma il prezzo da pagare sarà alto. Afferma a un certo punto il narratore: “Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa.”
Carraway è l’unico dell’intera storia che vuol bene a Gatsby e lo fa per l’appunto alla Sancho Panza, non comprendendone la stranezza e però accettandola e in fondo perfino ammirandola; egli manifesta il suo affetto all’amico proprio un attimo prima della fine, salutandolo presso il vasto giardino panoramico sulla baia di New York: “<Sono un branco di porci> gridai attraverso il prato. <Tu da solo vali più di tutti quanti messi insieme.> Sono sempre stato lieto di averlo detto. Fu il solo complimento che gli rivolsi mai, perché lo disapprovavo dal principio alla fine. Prima fece un cenno educato e poi il viso gli si aprì in quel sorriso raggiante e comprensivo, come se fossimo sempre stati grandi complici a questo proposito. Quel suo vestito rosa sgargiante creava una macchia vivace di colore sui gradini bianchi; pensai alla notte quando per la prima volta ero entrato nella sua casa ancestrale, tre mesi prima.”
Un amore impossibile, destinato al fallimento; un’età a cavallo fra giovinezza e maturità, sull’orlo dell’abisso, e in parallelo un’epoca che dalla mitica éra del jazz migra lenta verso la crisi economica del 1929 (il romanzo si svolge nell’estate del 1922); un’ascesa spericolata dalla povertà alla ricchezza; gl’ingredienti per una vicenda appassionante ci sono ma, tornando al punto di partenza, è nella lingua che risiede la misteriosa magia del romanzo di Fitzgerald.
Una lingua poetica, calibrata e ammaliante, intrisa di colori, suoni e prospettive più reali della realtà e più fantastici del sogno. “Le finestre erano socchiuse e scintillavano bianche contro l’erba fresca che pareva spingersi fino in casa. Nella stanza spirava un vento leggero, gonfiava le tende spingendone un’estremità in dentro e l’altra in fuori come se fossero bandiere pallide, torcendole verso il soffitto ornato come una torta nuziale e poi drappeggiandole sul tappeto color vino e stendendo su questo un’ombra come fa il vento sul mare.” Oppure: “La luna era salita più in alto, e nello stretto fluttuava un triangolo di scaglie d’argento, lievemente tremolanti sotto lo sgocciolio rigido e metallico del banjo sul prato.” Oppure: “Mentre passavamo sul ponte buio, il suo viso pallido su posò pigro sulla mia spalla e lo scossone formidabile dei trent’anni dileguò sotto la pressione rassicurante della mano di lei. Così ci avviammo verso la morte nel crepuscolo rinfrescante.” O ancora: “La veranda di Daisy era illuminata dal lusso costoso delle stelle; il vimine del divano scricchiolò all’ultima moda quando lei si voltò verso di lui e si fece baciare sulla bocca bella e curiosa.” O ancora: “L’ombra di un albero cadde bruscamente sulla rugiada e uccelli invisibili incominciarono a cantare tra le foglie azzurre.”
Per concludere, se oltre a quella degl’incipit si compilasse una classifica dei più bei finali dei romanzi, a mio avviso "Il grande Gatsby" vincerebbe a mani basse, grazie alla frase che segue: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
di Enrico Macioci