di Giuliano Gallo* - Nell’inverno del ’63 i lupi arrivarono fino alla Fontana Luminosa, un chilometro dal centro o poco più. Un cameriere del Convitto Nazionale, che camminava svelto per andare al lavoro, se li era trovati davanti all’improvviso. Erano cinque, forse sei. Il cameriere era arrivato di corsa al Convitto, e aveva raccontato il s…uo incontro con la voce ancora rotta dalla paura. Altri avevano visto i lupi, e il giorno dopo la notizia era sui giornali, in bella evidenza. In quegli inverni faceva davvero freddo, all’Aquila. Undici sotto zero. Ma la città non si fermava lo stesso. Quando cominciava a nevicare, di solito verso la fine di ottobre, i ragazzi delle scuole urlavano contenti “ha sturato!”, come dire il cielo si è stappato. E continuavano ad andare a scuola come sempre. Tanto la neve prima di febbraio non se ne sarebbe andata.
Arrivare all’Aquila da Roma era un viaggio avventuroso. L’autostrada non c’era e si doveva percorrere la Salaria fino a Rieti, per poi inerpicarsi lungo le strade strette che portavano ad Antrodoco, e poi ancora a Sella di Corno, il passo dal quale si scendeva verso la città. Gli autisti della società Pacilli avevano braccia come tronchi, e non mettevano mai le catene. Al massimo, se a Sella di Corno c’era ghiaccio, si fermavano a telefonare perché mandassero un camion di ghiaia da spargere lungo la discesa. Il viaggio durava tre ore, qualche volta quattro, ma anche sei se c’era troppa neve. A bordo distribuivano i sacchetti da vomito e molti, specie quelli seduti in fondo o che viaggiavano in piedi, finivano per adoperarli. Ad Antrodoco c’era un tornante così stretto che il bigliettaio doveva scendere e fermare il traffico che veniva dall’altra parte: se la corriera avesse incontrato un camion, si sarebbero incastrati per sempre. L’unico momento di quiete di quei viaggi avventurosi era la sosta alla stazione delle corriere di Rieti, dove la domenica si incontravano le comitive di ragazzi di ritorno dalle sciate al Terminillo. E noi, che invece stavamo tornando al freddo del Convitto Nazionale, li guardavamo sospirando di invidia.
All’Aquila c’era il rugby, uno sport che sembrava fatto per la gente di là. “Abruzzo forte e gentile”, si diceva con un filo di retorica locale. Ma i rugbisti erano davvero forti e gentili, anche se a volte sul campo un po’ rudi. Il capitano era Antonio Di Zitti, un gigante buono come il pane che era anche il capitano della Nazionale. Mai un’ammonizione, mai un gesto di troppo. L’estremo era invece Angelo Autore, infermiere al manicomio di Collemaggio. Sembrava un Apache, e parlava poco. La domenica i rugbisti si pavoneggiavano sotto i portici davanti al bar Scataglini, ritrovo dei tifosi: belli e solenni, stretti con un po’ di impaccio nelle loro divise, accendevano gli occhi delle ragazze. Essere fidanzata con uno di loro era una promozione sociale. Allo stadio Tommaso Fattori, quando giocava l’Aquila c’erano solo posti in piedi. D’inverno, prima della partita, i giocatori facevano il giro del campo a rompere le pozzanghere ghiacciate, per evitare di tagliarsi nelle cadute. Il primo maggio del ’66 seimila aquilani sarebbero corsi a Roma per godersi lo spareggio con le Fiamme Oro di Padova, scudetto il palio. Vinsero gli aquilani 6 a 3, dopo una partita in cui era scorso molto sangue. Il primo scudetto, festeggiato con damigiane di vino, capretti e un cambio di gomme per l’auto del capitano.
L’Aquila sembrava lontana da tutto, in quell’inizio di anni Sessanta. Ma non era vero. Poteva capitare ad esempio di vedere passeggiare sotto i portici una strana coppia vestita in modo curioso: erano Julian Beck e Judith Malina, i due inventori del Living Theatre che erano saliti fin lassù per uno spettacolo. La gente li guardava curiosa, ma nessuno sembrava scandalizzarsi. Solo gli alpini, numerosi come formiche, se li indicavano ridendo. E quando c’erano loro comunque il Teatro Comunale era sempre pieno. Così come la Società dei Concerti Barattelli facevano il tutto esaurito quando arrivava Arthur Rubinstein, che amava L’Aquila di un amore speciale. Alla Barattelli arrivavano anche altri concertisti da tutto il mondo, meno celebri di Rubinstein forse, ma bravi. Un ragazzo che andava ancora a scuola, figlio di una famiglia molto nota in città, si innamorò di una concertista, e fuggì con lei. Uno scandalo che aveva riempito per mesi i caffè e i salotti.
Ma l’orgoglio vero della città era, da sempre, la sua fama di centro culturale: un’università nata nel 1458, un liceo classico, il Domenico Cotugno, che ospitava alcuni dei migliori professori italiani. Giuseppe Giacalone, latinista e italianista di valore internazionale, era ad esempio da anni insegnante della mitica sezione A. E in quegli anni scriveva il suo commento alla Divina Commedia che oggi è libro di testo in centinaia di licei italiani.
L’Aquila oggi sventrata, ferita e vuota era così, in quei freddi anni Sessanta. E chi ci ha vissuto ha lasciato lì un pezzo del suo cuore.
*di Giuliano Gallo, pubblicato su Alganews