Domenica, 23 Agosto 2015 07:23

"In garella", paesaggi - e disagi - metropolitani nella poesia di Sabatino Ciuffini

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Sesto appuntamento dell'approfondimento a puntate con il quale NewsTown vuole [ri]scoprire e omaggiare la figura di Sabatino Ciuffini, poeta, sceneggiatore e intellettuale aquilano morto nel 2003 // Leggi qui tutte le puntate

di Anna Lucia Bonanni** - La vera poesia – ammesso di poter usare una simile espressione - non appare mai datata. Essa, dice Sabatino Ciuffini, che in quanto poeta se ne intendeva, "come la vita, è un corpo antico, vitale e onnipotente; è viva, anzi immortale, perché ha il potere di rinascere con ogni nuova generazione". 

Queste parole che lui scriveva riferendosi alla poesia in generale, sono quanto mai appropriate per definire la sua stessa opera.
Dopo l'analisi dei suoi "autoritratti", cioè delle poesie in cui nel corso degli anni egli ci dà una rappresentazione ora drammatica, ora ironica, di se stesso, proseguiamo il nostro percorso di lettura con alcune poesie che Ciuffini dedica a un aspetto particolare della vita contemporanea: il paesaggio urbano e segnatamente quello automobilistico, affrontato in un modo originalissimo, "che non ha eguali nella poesia moderna italiana" (Alinei).

Crediamo di poter dimostrare facilmente l'assunto iniziale: a rileggerle oggi, pur a tanti anni di distanza, queste poesie appaiono tutt'altro che datate, anzi: dimostrano una capacità di vedere con largo anticipo gli esiti che avrebbe avuto la nascita della civiltà automobilistica, in termini economici, sociali e finanche sociologici e antropologici.

Ciuffini primo pianoSiamo agli antipodi rispetto all'esaltazione futurista della macchina e della velocità che, iniziata ai primi del Novecento, si è protratta per decenni, contaminando tutti gli aspetti della nostra vita e tutti gli strati della società. Persino la Chiesa ha avallato questa generale infatuazione per l'automobile; all'Aquila, solo per fare un esempio di cui molti si ricordano, le celebrazioni della Perdonanza prevedevano, fino a tempi relativamente recenti, quella sorta di rito tra sacro e profano della benedizione delle automobili, che avveniva nel piazzale di Collemaggio in un assordante carosello. Che cambiamento, rispetto al delirio di folla che anticamente seguiva l'ostensione delle reliquie del dito di San Giovanni Battista e dello stesso Celestino!

Ma torniamo a Ciuffini: nelle poesie degli anni Quaranta, il disagio verso la macchina è rifiuto totale:

"grida, grida/ che le macchine lustre hanno il ruggito / delle belve" (Preghiera);

"spaziose le strade / nuove, che se da un livido cancello / tenta il tragitto all’altro marciapiede / un gatto innamorato, mai non sfugge / ai denti di una macchina che rugge" (Lettere Romane, Terza, III).

Nelle più recenti poesie degli Sfregazzi vediamo l'autore partecipare suo malgrado e con irosa insofferenza alla frenesia automobilistica:

Comandano i piedi (Con ira*)

Con fari con trombe,
a sinistra a destra mi pungolano
mi frustano. Sono un cavallo?
Comandano i piedi. Freno
accelero. Schioccano le scarpe
col ferro, tumultuano le tempie.

Anche se dentro il cuore
mi galoppa lo spavento, a volo
addento i fulmini, strozzo
lo scrocchio dei tuoni. E agli elementi
che mi sconquassano la casa di latta
non chiedo clemenza: sento
nemici gli uomini non la burrasca.

Alle mie spalle, veloce
decampa una schiera di platani
neri di pioggia. Sulla via che dinanzi
si rizza, a vivi torrenti zampilla
dai fanalini di coda la luce
come sangue. Con ira
serpento la liquida rampa.

Sferzato dal temporale, il paesaggio urbano popolato da automobili assume nel finale di questa poesia i tratti di una visione vagamente allucinata.

Vivissima, e molto cinematografica, l’immagine della luce dei fanalini di coda delle automobili che zampilla come sangue; magistrali il ritmo, sferzante anch’esso, scandito da frequenti pause ed enjambement, e la musicalità dei versi, con l’intreccio di assonanze (platani/dinanzi; via, rizza, zampilla, ira, liquida;) e allitterazioni (platani e pioggia; coda, come, con).

Molto ci sarebbe da dire sugli aspetti metrici linguistici e retorici di questa lirica; basti a titolo esemplificativo qualche cenno su due versi in particolare: "decampa una schiera di platani" e "serpento la liquida rampa". Sono entrambi novenari, esattamente tripartiti nell’identica accentazione, gli unici di questa strofa non segnati da pause o dilatati da enjambement; danno un ritmo piacevolissimo a questa parte della poesia concorrendo alla musicalità dell’insieme, il primo, in particolare, anche con assonanze interne. Entrambi si notano inoltre per la presenza di due termini marcati: 'decampa' e 'serpento'. 'Decampare' è termine raro, di provenienza francese, attestato a partire da metà Seicento e, benché osteggiato dai puristi, usato poi per tutto il Settecento prevalentemente in testi storici.

Deriva da 'campo' e significa appunto 'sgombrare il campo', 'togliere le tende', in senso lato 'allontanarsi'. Ciuffini lo usa in quest'ultima accezione, intendendo che alle sue spalle, mentre corre in automobile, si allontana dalla vista, quindi sgombra il campo visivo, una schiera di platani. Ora, aver usato questa parola in mezzo allo sterminato repertorio che la sua erudizione gli rendeva disponibile, e che è già di per sé notevole, consente all’autore di creare un verso che per efficacia ed eleganza di scelte lessicali, oltre che per suono e ritmo, risulta pressoché perfetto.

"Ogni parola è un potentato" scrive Ciuffini. "Comporre vuol dire coordinare tante parole-potentati per formare un potentato di parole più complesso, organicamente, più forte di struttura, più ricco".

Questa definizione calza a pennello per commentare l'ultimo verso della poesia: tre parole, che insieme non sommano ma moltiplicano la loro potenza, donandogli un mirabile equilibrio. La prima di esse, il verbo 'serpento', è uno dei non rari neologismi coniati dal poeta; non si può che ammirarne l'efficacia, sia a livello ritmico, sia per l'immediatezza semantica, che ben si accorda all’immagine del torrente di sangue cui viene paragonata la strada, riempita nel buio dalla scia luminosa del rosso dei fanalini di coda; la strada definita nel finale "liquida rampa", con un'espressione che dà scintille per l'accostamento, insolito sia per posizione che per significato, dell'aggettivo al sostantivo; 'rampa', infine, dà l’'dea di qualcosa da cui ci si lancia per un salto, ed è esattamente con questo guizzo, con questo slancio che il poeta conclude la sua folle corsa e la poesia.

E’ interessante, per concludere, confrontare questo testo con uno dei brani in prosa degli Sfregazzi; come nello Zibaldone leopardiano compaiono spunti di riflessione e immagini che ritroviamo poi nei Canti, così nelle prose di Ciuffini possiamo rintracciare a volte il materiale originario di pensieri e immagini elaborati nelle liriche:

"E' da cretini correre – pensa – e spinge il pedale fino a che il suo piede, attraverso la suola, sente il duro ferro. A che serve scivolare come un fantasma sopra un fiume di asfalto, non visto da altri che non siano fantasmi volanti, senza vedere altro che poltiglia di cose? A che serve vedere alberi come stracci di nebbia e prati come carte veline gualcite e monti come fumi d’incenso e macchine come relitti travolti dall'alluvione e uomini come polli spennacchiati, inseguiti dalle folate delle piume perdute? Non ha fretta di arrivare, non lo aspetta nessuno e in più pensa che è da cretini correre! Forse odia il mondo, così bello visto da fermi, e cerca di distruggerlo e di distruggersi per non vederlo più".

[fine prima parte, continua]

*Questa poesia compare col titolo Comandano i piedi nella raccolta Sfregazzi (Roma, Guidotti 1988); è poi riportata insieme ad altre liriche scelte dagli Sfregazzi in appendice alla raccolta Lettere Romane (Roma, Guidotti 1992), e intitolata Con ira.

**La foto di Sabatino Ciuffini riportata nel corpo dell'articolo è di Bruna Innamorati. 

**aquilana, docente di lettere 

Ultima modifica il Lunedì, 24 Agosto 2015 14:56

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