Domenica, 01 Maggio 2016 07:31

La fabbrica fallisce, gli operai la salvano: la storia della Italcables

di 

Nel gergo dell'economia si chiama workers buyout: è il salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti. Attraverso una ristrutturazione aziendale, usando i risparmi, il Tfr o l’indennità di mobilità, i lavoratori acquistano la proprietà dell’intera società o di una sua parte.

La vecchia utopia socialista che prevedeva la proprietà collettiva dei mezzi di produzione non solo si è realizzata ma, in questi anni di crisi, è diventata una pratica sempre più utilizzata per rilanciare aziende in difficoltà.

Un recente rapporto Euricse, infatti, ha registrato un vero e proprio boom a partire dal 2008, inizio della crisi economica. Tra il 2007 e il 2014, in Italia si è passati da 81 a 122 casi, con un balzo in avanti del 50%. “E il tasso di sopravvivenza delle fabbriche recuperate” evidenziano gli studiosi autori del dossier “è molto buono: la vita media di un workers buyout si attesta a quasi 13 anni, poco meno rispetto al livello delle imprese italiane, che arrivano a 13,5 anni”.

Uno dei casi di workers buyout di cui si è più parlato di recente è quello della Italcables di Caivano (Napoli), impresa specializzata nella produzione di acciaio per grandi infrastrutture.

Colpita da una crisi finanziaria nel 2012, l'azienda è rinata dalle sue ceneri grazie all’impegno di 52 ex dipendenti, ora diventati soci fondatori della nuova azienda, una cooperativa, la Wbo Italcables, dove Wbo sta, appunto, per workers buyout.

Per costituire il capitale sociale, ogni lavoratore, dai quadri agli operai, ha versato, di tasca propria, 25 mila euro, presi dall'indennità di mobilità. Il resto dei soldi li hanno messi la Coop Fond (il braccio finanziario della Lega Coop), la Cfi (una spa del Mise specializzata in questi progetti) e Banca Etic, l'unico istituto di credito ad aver creduto nel progetto.

Quella della Italcables è la prima esperienza di workers buyout in ambito siderurgico. Un caso straordinario per il Mezzogiorno, ancor di più per la periferia industriale di Caivano, paese dell'hinterland napoletano diventato tristemente noto soprattutto per essere uno dei comuni compresi nella cosiddetta Terra dei fuochi.

Lo scorso dicembre, a sottolineare l'importanza dell'avvenimento - la riattivazione degli impianti di produzione - all'inaugurazione del “nuovo” stabilimento c'era anche il ministro Giuliano Poletti.

Uno dei principali protagonisti e degli artefici dell'operazione di workers buyout che ha salvato la Italcables è un ingegnere aquilano, Raimondo Liberatore.

“Quella che due anni fa sembrava solo un'utopia, ora è una realtà che funziona” racconta a NewsTown Liberatore, direttore dello stabilimento di Caivano “Siamo riusciti a riportare la produzione a buoni livelli e a rientrare in carreggiata. L'obiettivo è di continuare a consolidarci e di crescere, per arrivare, tra due anni, a diventare i proprietari dello stabilimento”.

Raccontare, attraverso le parole dell'ingegner Liberatore, la vicenda della Italcables ci è sembrato un buon modo per celebrare questo 1° maggio.

Ingegner Liberatore, facciamo un po' di storia. Di chi era la Italcables prima che fallisse?

L'azienda era di proprietà di una holding con sede in Portogallo. Questa holding, nel 2005, aveva acquistato prima la Italcables, che aveva due stabilimenti, uno a Brescia e l'altro a Pescara; e poi, nel 2008, la Redaelli di Caivano. Nel 2008 ci fu una fusione e tutti e tre gli stabilimenti vennero raggruppati sotto la sigla Italcables. A Brescia si producevano circa 20 mila tonnellate di prodotto l'anno; a Pescara 35 mila e a Caivano 50 mila.

Di che prodotto parliamo?

Di  trefolo per cemento armato precompresso. E' l'acciaio che viene usato per le grandi infrastrutture, i prefabbricati, gli ancoraggi delle montagne, le dighe, i ponti, i cavi usati nei sollevamenti speciali, come quello della Costa Concordia. Il trefolo usato dalla Fagioli, la ditta specializzata che riaddrizzò il relitto della nave, è nostro. Nel 2012 il 55% della nostra produzione era destinato all'estero.

13089968 1131359810242556 1373021204 nQuando è iniziata la crisi?

Nel 2009. E' stato chiuso prima lo stabilimento di Brescia, poi, nel 2012, quello di Pescara, dove ero direttore dal 2002. Siccome c'era una forte crisi finanziaria, la proprietà decise di concentrare tutta la produzione a Napoli. Il colpo di grazia ci fu quando entrarono in crisi le acciaierie Lucchini, che ci fornivano la materia prima. Nei confronti del gruppo si era accumulato un grande debito ma si era arrivati a un accordo commerciale grazie al quale l'azienda continuava a fornirci l'acciaio a fronte di pagamenti cash. A gennaio 2013, però, la Lucchini andò in concordato. Il commissario straordinario bloccò tutto e l'Italcables dovette stoppare la produzione essendo rimasta praticamente senza materia prima.

Pensaste immediatamente a un workers buyout?

No, in un primo momento si cercò di fare un concordato preventivo in continuità tramite un accordo con i creditori. Commesse, del resto, ne avevamo ancora. I creditori, in particolare la Lucchini, avevano accettato ma all'ultimo le banche, che inizialmente avevano dato l'ok, si tirarono indietro. Così, a metà 2013, l'azienda entrò in concordato preventivo ossia in liquidazione. Lì ci sono stati i momenti più brutti: ci furono proteste molto accese da parte degli operai, che occuparono la fabbrica salendo anche sui tetti. Anche al Mise, dove nel frattempo era stato aperto un tavolo di crisi, ci furono momenti di tensione.

Quando maturaste l'idea del workers buyout?

Non appena ci accorgemmo che la proprietà non avrebbe potuto riprendere in mano la situazione, iniziammo a pensare all'idea di associarci in cooperativa e di rilevare lo stabilimento. Le commesse c'erano, tutte le figure aziendali c'erano, i macchinari anche, bisognava solo trovare i soldi per finanziare il progetto. L'idea iniziò a prendere corpo nei primi mesi del 2014, il primo ad aiutarci fu un politico campano, Corrado Gabriele, che ci accompagnò al Mise e ci presentò Giampiero Castano, un dirigente del ministero che si occupa proprio di crisi aziendali. Fu lui a dirci che l'unica chance percorribile era quella del workers buyout. In seguito ci ha aiutato molto anche un commercialista di Napoli, lo stesso dell'area industriale di Caivano, dove ci sono anche lo stabilimento della Unilever che fa i gelati Algida e parecchie aziende dell'indotto Fiat. Questa persona ha creduto nel progetto, ci ha aiutato a redigere il business plan e la proposta d'acquisto al commissario liquidatore. Ci ha seguito per un anno senza nemmeno pretendere un compenso, lavorando gratis. Un altro tassello importante, infine, è stata la Lega Coop campana.

Per costituire il capitale sociale della cooperativa avete versato i soldi presi dalla vostra indennità di mobilità.

Sì, abbiamo versato tra le 25 mila e le 30 mila euro a testa, soldi presi dalla mobilità. Abbiamo potuto sfruttare una legge, la legge Marcora, che permette di avere l'indennità di mobilità anticipata in un'unica soluzione, a condizione di reimpiegarla per l'apertura di attività imprenditoriali o per la costituzione di una cooperativa. In tutto abbiamo versato 1 milione e 200 mila euro.

Il resto dei finanziamenti da dove vi è arrivato?

Da Coop Fond, il braccio finanzario della Lega Coop, e Cfi, che all'inizio hanno messo, ciascuna, 300 mila euro, ai quali se ne sono aggiunti, in un secondo momento, altri 400 mila. L'unica banca che ha creduto nel progetto è stata Banca Etica, che ci ha concesso un mutuo di 500 mila euro dandocene poi altri 500 mila di anticipo fatture. Con altri bandi con cui di recente ci sono stati ssegnati altri fondi, siamo arrivati a 4 milioni e mezzo. Ci tengo a precisare che nemmeno un euro è stato a fondo perduto. Dovremo restituire tutto con gli interessi.

Una volta costituita la nuova società vi siete riassunti tutti con gli stessi contratti che avevate prima?

Sì. Le assunzioni sono state fatte tra agosto e settembre del 2015. Ci siamo riassunti tutti con i contratti e le mansioni che avevamo nella vecchia zienda. Dei 67 dipendenti che eravamo, siamo rimasti in 52. Abbiamo sottoscritto dei contratti di solidarietà, per garantire almeno tre giorni di lavoro a tutti i soci perché, anche lavorando il minimo, chiunque avrebbe preso più di quel che prendeva con la mobilità. I primi mesi abbiamo lavorato 3 giorni su 5 ma adesso abbiamo ripreso quasi a pieno regime.

E per lo stabilimento?

Abbiamo fatto un'offerta irrevocabile di acquisto: saremo in affitto fino al luglio 2018, dopodiché dovremo pagare una maxi rata finale per acquisirne la proprietà. Attualmente paghiamo un affitto di circa 10 mila euro al mese, cifra che verrà scalcolata dal prezzo finale, che sarà di 3 milioni di euro. La somma sarà coperta in parte dai guadagni che nel frattempo avremo ottenuto e in parte da un altro mutuo che dovremo chiedere alle banche. Ma dopo 3 anni pensiamo che avremo tutte le carte in regola e una storicità per accedere al credito che finora ci è stato negato.

A che ritmi di produzione viaggiate in questo momento?

La produzione è ripartita a fine settembre. Siamo passati dalle 150 tonnellate alle 1600 dell'ultimo mese. Nei mesi estivi dovremmo arrivare a 2 mila.

Continuate a esportare molto?

Sì, almeno il 60% di quello che produciamo. Esportiamo soprattutto negli Usa. Attualmente stiamo partecipando a un progetto molto importante, l'innalzamento di un ponte situato davanti al porto di New York. Un'opera resasi necessaria per permettere il passaggio di navi portacontainer più grandi. Per la realizzazione di questo abbiamo venduto circa mille tonnellate di trefolo.

E' stato difficile riavviare la produzione?

Sì, soprattutto perché i macchinari erano rimasti spenti circa due anni e mezzo. Alcune macchine ancora non siamo riusciti a farle partire ma per ora, visto che stiamo viaggiando a ritmi di produzione più bassi rispetto a quelli che lo stabilimento può garantire funzionando a regime, va bene così.

Che bilancio si sente di fare a un anno dalla costituzione della cooperativa?

Il bilancio non può che essere positivo. Se penso a due anni fa, tutto questo appariva come un'utopia. L'anno scorso era diventato un progetto fattibile ma ancora tutto da scrivere. Adesso siamo partiti, siamo riusciti a fare le prime vendite e a rientrare in carreggiata. Ci stiamo consolidando ma l'obiettivo è crescere ancora per poter aumentare il giro d'affari e creare questo piccolo castelletto che ci consentirà, tra due anni, di acquistare lo stabilimento.

Ultima modifica il Lunedì, 02 Maggio 2016 09:53

Articoli correlati (da tag)

Chiudi