Giovedì, 04 Aprile 2013 08:00

"Parola di Scienza", la consulenza Ciccozzi al processo CGR diventa libro

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Antonello Ciccozzi è il ricercatore di antropologia culturale (lavora al Dipartimento di Scienze Umane dell'Università dell'Aquila) che ha scritto la consulenza tecnica  alla base della sentenza con la quale, alle 17:00 dello scorso 22 Ottobre, il Giudice del Tribunale dell'Aquila Marco Billi ha condannato in primo grado tutti i componenti della Commissione Grandi Rischi.

Ora quella consulenza, che ha fornito la legge di copertura scientifica alla sentenza, è riportata integralmente insieme a vari altri contributi ed approfondimenti, in un libro: "parola di Scienza - Il terremoto e la Commissione Grandi Rischi. Un'analisi antropologica" edito da DeriveApprodi e che verrà presentato per la prima volta il 6 Aprile a L'Aquila nello spazio autogestito di CaseMatte a Collemaggio.

Come ha fatto un giovane ricercatore di provincia di una disciplina considerata marginale a scrivere la consulenza scientifica risultata poi alla base della sentenza che ha condannato la commissione Grandi Rischi in un processo che ha avuto risonanza mondiale e che è stato da subito definito "storico"?
Grazie per il "giovane", diciamo relativamente giovane, almeno rispetto al ruolo. Ruolo che in questo caso è stato determinato da un insieme di volontà e di casualità. Avendo vissuto il terremoto in prima persona, e avendo interpretato gli esiti di quella riunione in base a delle competenze che ho acquisito negli anni, mi sono subito dedicato alla tematica chiave di questa vicenda, ovvero al fraintendimento prima di tutto linguistico circa il senso da attribuire a ciò che la Commissione Grandi Rischi aveva comunicato alla cittadinanza con la riunione aquilana. Quegli scienziati vennero a dirci di stare tranquilli; ma, per descrivere questo atto, tutti parlavano di "mancato allarme". Allora ho voluto scrivere un testo sul mio blog, che poi è finito sui media locali, in cui ponevo un distinguo su cosa significa "mancato allarme", spiegando perché la diagnosi della Commissione Grandi Rischi non è stata affatto un mancato allarme ma una rassicurazione disastrosa.
Questo testo è stato notato da un avvocato allora attivo nei comitati locali sorti dopo il terremoto, che mi ha invitato ad intervenire ad un convegno dove fra i relatori era presente anche il Pubblico Ministero Fabio Picuti. Da quell'intervento Picuti si è interessato alla tematica, e ha mostrato una spiccata sensibilità circa la possibilità di una chiave di lettura antropologico-culturale di quella vicenda. Tutto è partito da quella coincidenza. A me questo ha destato genuino stupore perché in un certo senso esiste una sorta di gerarchia implicita tra saperi; per cui i giuristi che fanno parte della falange, per così dire, più "robusta" delle scienze umane tendono a considerare certi contributi come delle frivolezze, o a non considerarli proprio.
Invece qui c'è stato un salto di qualità. Con Picuti abbiamo iniziato ad avere dei contatti e mi ha cominciato a convocare in Procura per discutere di tutti questi aspetti, in un crescendo di interesse. Poi un giorno consultandosi con l'altra PM, Roberta D'Avolio, ha preso una decisione che nessuno si sarebbe aspettato: ha scelto di affidarmi formalmente una consulenza tecnica. Quello è stato un atto direi intrinsecamente rivoluzionario e speriamo anche fondativo perché è stata la prima volta che l'antropologia culturale si trova inserita in un dibattimento processuale in base ad un ruolo formalmente riconosciuto. In fondo Picuti ha compreso che per definire il modo in cui la diagnosi della Commissione Grandi Rischi aveva influenzato la popolazione aquilana era necessario vedere come questa aveva interagito con la cultura antropologica del luogo, come si era diffusa nel senso comune aquilano e come lo aveva alterato, influenzando in questo modo le condotte di parte della popolazione. Pur trattandosi di un tema dolorosissimo, pur rivelandosi un lavoro di ricerca faticoso dove ho dovuto affrontare una grande mole di dati, formulare, considerare e abbandonare diverse ipotesi e teorie, posso dire che si è trattato un'esperienza intellettuale davvero entusiasmante.
Certo, il mio ruolo è stato minimo, seppure necessario: in un certo senso fornire la legge scientifica di copertura è stato come fornire un ingranaggio minuto ma indispensabile per far girare il meccanismo di un grande orologio. L'orologio l'hanno costruito i PM; infine il giudice ha detto che segnava l'ora giusta.

Entriamo nel merito allora. Secondo la tua consulenza cos'è successo in pieno sciame sismico a L'Aquila tra il 31 Marzo, quando la commissione si riunì, e le 3e32 del 6 aprile il giorno della scossa più forte?
La consulenza è basata su due temi principali. In uno spiego, come dicevo prima, la differenza tra il non allarmare e il rassicurare infondatamente. Quello che è successo quei giorni è talmente unico da risultare incomprensibile: degli scienziati autorevolissimi arrivano e ribadiscono alla popolazione una versione che avevano iniziato a comunicare già con l'intensificarsi delle scosse, da settimane prima, e che dice che le scosse che si susseguivano devono essere intese non come l'eventuale preludio a un terremoto, ma come il suo antitodo. Probabilmente questo rassicurare in modo infondato e con esiti disastrosi è stato tradotto con il termine "mancato allarme" solo perché nel nostro linguaggio manca la parola per descriverlo: non abbiamo il termine "rassicurazionismo". Non avendo avuto parole appropriate per indicare quello che stava successo, le persone hanno confuso, e pur dicendo "la commissione grandi rischi ha detto di restare a casa", hanno tradotto questo comportamento definendolo comunemente in termini di "mancato allarme".
In realtà la CGR ha fatto peggio: un "mancato allarme" è non dare informazione circa un evento nefasto, mentre una "rassicurazione disastrosa" è dare un'informazione circa l'assenza di un evento nefasto che invece si verifica. Per spiegare questo nella consulenza ho fatto vari esempi tra cui forse quello più chiarificatore è quello del semaforo. Un mancato allarme come è un incrocio senza semaforo, viceversa la rassicurazione disastrosa è come un incrocio con un semaforo che invece di segnare rosso, segna verde. Dare un'informazione infondata di non pericolosità è molto peggio di non dare un'informazione di pericolosità: si abbassa il livello di allerta. Su questo verteva il processo, su questa distinzione chiave si è fondata la mia collaborazione con Picuti fin dall'inizio.
Il secondo tema della consulenza ha riguardato la spiegazione di come questa rassicurazione comunicata dagli scienziati abbia portato ad una modificazione del comportamento della cittadinanza, o meglio di parte di essa. Si tratta dell'argomento che è stato acquisito nella sentenza come legge di copertura scientifica. Qui mi sono basato su una teoria di psicologia sociale, quella delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici. Riassumendo al massimo, questa teoria ci dice che nelle società "avanzate" le persone impostano il proprio comportamento a partire modelli della realtà che vengono prevalentemente dalle istituzioni scientifiche; quelle che oggi nell'Occidente godono di maggiore autorevolezza. La scienza, nei suoi usi sociali, fornisce categorie al senso comune che influenzano i comportamenti concreti delle persone. Per quanto ci riguarda vuol dire, in estrema sintesi, che la Commissione Grandi Rischi non ha modificato la capacità di volere dei cittadini ma quella di intendere, ha definito che quel fenomeno era di tipo positivo: non c'è stata costruzione ma persuasione. In questo caso nella consulenza ho fatto l'esempio del micologo, l'esperto di funghi. Se troviamo dei funghi, li portiamo da un micologo che ci dice che sono buoni e moriamo avvelenati, non è che il micologo ha influito sulla nostra capacità di volere - non ci ha ingozzato di funghi - ma ha influito sulla nostra capacità di intendere, dandoci, appunto, una rassicurazione che si è rivelata disastrosa. Venendo a noi, a partire da una valutazione sostanzialmente analoga, molte persone, nonostante le scosse inquietanti di quei giorni e di quella notte, hanno pensato che potevano rimanere a casa. E' questa riduzione della percezione del rischio che, insieme alla vulnerabilità di alcuni edifici, ha concausato la perdita di vite umane. Voglio dire che tra le vittime di quella notte c'è stato chi è morto perché c'è stato un terremoto, perché la casa non ha retto, e perché la diagnosi di quegli scienziati lo aveva persuaso che le scosse di quella notte stessero "scaricando" il terremoto, non precedendolo; e che quindi non c'era ragione di uscire da casa, come si era fatto fino ad allora dopo un forte scuotimento. Sarebbe bastato non dire nulla a quelle persone per non convincerle a restare al letto, per farle scampare dalla morte.

Eppure quando è uscita la sentenza quasi tutti i media e la comunità scientifica hanno parlato di processo alla scienza, perché?
Attraverso il teorema dell'accusa per mancato allarme c'è stata una mistificazione fraudolenta in quanto già la memoria del PM specificava che l'accusa non era di mancato allarme, ma per aver rassicurato. Questa operazione ha avuto il suo punto di maggiore influenza nell'appello mondiale degli scienziati, dove la chiamata alle armi veniva proprio dall'idea che in Italia degli scienziati fossero processati per non aver previsto un terremoto. Anch'io avrei firmato un appello simile ma il processo era, all'opposto, per aver previsto che un terremoto non ci sarebbe stato.

Nel libro hai una posizione molto critica sull'attuale ruolo della scienza.
Va distinta la critica alla malascienza politicizzata da un discorso genericamente antiscientista, che non solo non pratico ma non accetto. In generale il mio discorso, o più precisamente quanto sviluppo nell'ultimo capitolo del libro, è specificatamente contro la ciarlataneria che inquina la scienza quando questa cede alla politica. Si tratta di combattere il millantare autorevolezza scientifica a partire da acquisizioni di autorità politicamente sostenuta. A ben vedere, la condanna – che è una condanna contro la negligenza – ha, in questo senso, anche il valore di rafforzare la scienza; almeno quella che è rivolta al bene comune prima che al potere.

Che significato ha avuto in chiave antropologica questo processo? Credi sia possibile cha abbia contribuito a sviluppare una maggiore elaborazione di quanto accaduto in una città confusa?
L'uomo ha bisogno di dare significato a ciò di cui fa esperienza, succede per i piccoli eventi figuriamoci per quelli grandi. Questo processo ha avuto una funzione culturale oltre che giuridica, che è quella di costruire memoria collettiva, stabilendo una versione dei fatti, una verità. Una verità che, come tutte le verità, è il frutto di una contrattazione di narrazioni, che solo dopo essere avvenuta fa apparire la verità come "naturale". Nel processo è emersa una verità, vedremo poi cosa succederà nei prossimi gradi di giudizio. Non mi intendo di responsabilità da un punto di vista giuridico, ma credo che questa condanna di primo grado resterà come responsabilità morale.

Che ruolo hanno avuto in questa storia il sistema giudiziario e i suoi protagonisti come i Pm Picuti e D'Avolio e il Giudice Billi, anche in relazione al contesto generale in cui si sono trovati a lavorare?
In questo senso il processo i ha fatto conoscere delle persone davvero ammirevoli. Di Fabio Picuti e Roberta D'Avolio ho massima stima per la serietà, l'impegno, la capacità e il coraggio. Non si sono mai intimoriti di fronte a dei grandi avvocati che erano stati anche loro docenti universitari. Hanno combattuto contro persone che hanno scritto i libri su cui avevano studiato.
Il Giudice Marco Billi ha avuto il coraggio di scrivere una sentenza che nessuno probabilmente si aspettava. Personalmente l'ho vissuto come un atto di generosità e di onestà nei confronti di questa città ferita, troppe volte ingannate e umiliata. Billi si è sacrificato anche per L'Aquila, nel senso che si è esposto, ha osato con una condanna audace, nel nome della giustizia. Ci ha restituito una ragione per sperare, per avere fiducia nelle istituzioni. In questa vicenda ho visto un'Italia che funziona, fatta di persone che hanno portato avanti senza intoppi un processo assai complesso, compiendo qualcosa di clamoroso, fuori da canoni prestabiliti, tracciando una strada nuova. Poi Picuti, l'unico aquilano dei tre, è stato un esempio raro di figura istituzionale locale attraverso la quale la città è riuscita a ribattere ai diktat autoritari venuti dall'alto e a dire "le cose stanno diversamente da come vorreste farci credere". Sono certo che se tanti, tra i nostri politici, avessero avuto un centesimo del suo coraggio e della sua capacità, del suo carattere e della sua costanza, oggi ci troveremmo in una situazione meno sottomessa e disastrata rispetto a quella che viviamo. Invece nel dopo-terremoto la nostra classe politica locale mi è parsa troppe volte accondiscendente con l'autorità nazionale e severa con la popolazione aquilana; e l'aver constatato questo è stato per me causa di grande dolore.

Hai pubblicato per una casa editrice, DeriveApprodi, che tratta molti testi di movimento e presenti il libro per la prima volta nello spazio autogestito di CaseMatte. Ci puoi spiegare il perché di questa scelta?
C'è una simpatia nel senso etimologico del termine. Negli anni del mio dottorato ho svolto attività di ricerca etnografica sulle culture anti-sistemiche, e in quest'occasione ho conosciuto la casa editrice DeriveApprodi da lettore. C'è anche una continuità sostanziale che riguarda un fatto: in fondo questo processo è stato un singolare atto di sovversione, intesa nell'accezione positiva del termine, come rovesciamento di un ordine costituito degenerato. In tutto questo posso dire che sono stato fortunato: a partire dalla buona predisposizione del PM Picuti nei miei confronti, ho potuto commettere un atto di "regicidio" simbolico da una posizione direi "agevole", che è quella del consulente istituzionale. Questo è potuto accadere perché nel processo è successa una cosa eccezionale: lo Stato che processa sé stesso. D'altra parte a ben vedere la storia è un susseguirsi di regicidi. Il regicidio è, intendendo il termine in senso ampio, lo strumento col quale un'entità governata si libera dal governante obsoleto: è la modalità culturale di rigenerazione del potere. Con la democrazia abbiamo addomesticato il regicidio all'interno di un dispositivo elettorale che permette, o almeno promette, i cambiamenti attraverso una crocetta su una scheda. Qui il regicidio rituale sta nella battaglia legale contro un ordine di potere scientifico consolidato, che si manifesta non solo incapace ma anche dannoso. Per questo penso che le istituzioni scientifiche usciranno non danneggiate, ma migliorate da questa condanna. Come dicevo prima, chi ci perderà sarà la scienza sottomessa alla politica. Insomma, non mi spavento nei confronti del termine quando dico "regicidio"; anche se so, riferendomi all'immaginario etno-antropologico, che chi commette un regicidio deve stare molto attento. Voglio dire che, anche se finora i quattro illustri consulenti della difesa non ci sono riusciti, probabilmente presto in qualche modo altri taglieranno la testa anche a me, scientificamente parlando: non mi stupirei se le mie teorie fossero demolite, in parte o del tutto. D'altronde fa parte del gioco, delle regole della scienza. Di quanto ho scritto potrebbe restare una carcassa di fatti sconnessi e interpretazioni smembrate. Poco importa, quel che conta sono i percorsi e lo spirito con cui si affrontano. Dico questo perché ho da poco letto che l'appello si giocherà in gran parte sulla messa in discussione del nesso causale derivato dalla mia consulenza. Sono lieto poi di parlare di questo libro a CaseMatte perché con il comitato 3e32 ho condiviso – insieme ad altri protagonisti della cittadinanza attiva – dei momenti di antagonismo che ritengo siano stati molto importanti; ben oltre la questione locale della gestione dell'emergenza del dopo terremoto. Mi spiego meglio: come ho detto già altre volte, penso che se non fosse stato per la parte consistente di aquilani che si è ribellata al sistema di gestione della Protezione Civile, qualcuno ai suoi vertici avrebbe potuto mantenere un alone carismatico che probabilmente, specialmente nello scenario di emergenza politica attuale, gli avrebbe consentito di assumere un ruolo guida nei confronti della Nazione. Sarà che quando vedo gente in divisa dettare decisioni politiche mi preoccupo, ma penso che forse la rivolta che c'è stata all'Aquila sia servita più all'Italia che alla città.

Sta per svolgersi il quarto anniversario del 6 Aprile. Come ti sembra si approccia la città di fronte questa data?
Ovviamente per L'Aquila quella del 6 Aprile è diventata una data ad altissimo valore cerimoniale. È la data più importante, la festività drammatica che include tutto il senso della morte e, dunque, della rinascita della città. Così in questa giornata di rigenerazione simbolica si concentrano una serie di aspettative e problematiche che però rischiano di sfogarsi nel parossismo del rito propiziatorio per poi sparire nei giorni normali. Intendo dire che l'eccesso cerimoniale, può fare della data esemplare del 6 Aprile, un giorno che invece di informare gli altri giorni del calendario con i suoi significati, li svuota, a causa di un vero e proprio eccesso orgiastico di eventi mediatico-culturali. Viceversa l'anniversario del terremoto dovrebbe servire a mettere sul tavolo delle tematiche civiche gli argomenti da discutere tutti i giorni dell'anno; non a toglierli confinandoli nel "banchetto" di quella data, come mi pare che in realtà avvenga rispetto a diversi temi. Invece bisognerebbe fare in modo che la memoria delle vittime aquilane diventi, per usare le parole di De Martino, un'"ombra protettice" che, nel nostro caso, ci guidi, durante tutte le decisioni sulla ricostruzione, verso una cultura della responsabilità.
Qui vorrei aggiungere una considerazione finale. Oggi all'Aquila in molti pensano che le cose vadano male, come minimo a rilento; e il sindaco dal 7 aprile ha promesso di protestare perché se seguitiamo così, stando a quanto dice, la città rischia di morire. Pochi si accorgono che ciò dipende, oltre che dalla carenza di fondi, dal fatto che le due soluzioni principali scelte dall'amministrazione locale in termini di urbanistica, invece di risolvere l'emergenza l'hanno drammaticamente amplificata, gettandoci in un caos invivibile che seguitiamo a chiamare città. Parlo in un caso della scelta di puntellare estensivamente tutto il centro storico, equiparando qualsiasi edificio a bene da tutelare. Questa decisione rallenta gravemente la ricostruzione, fa lievitare i costi ed espone a un rischio di "rattoppo" che potrebbe restituirci una città più pericolosa di prima: probabilmente si subordinerà il principio di sicurezza sismica a quello di tutela patrimoniale, e questo, specialmente per molti edifici a basso valore storico-artistico-architettonico, penso sia inaccettabile. Considerando dove siamo, ricostruire in deroga rispetto alle più severe norme di sicurezza anti-sismiche, a quelle che si dovrebbero pretendere per la sicurezza dei posteri, è un modo di disonorare la memoria delle vittime. Parlo, nell'altro caso, della scelta di localizzare del progetto C.A.S.E. lontano dalla città, in aree rurali, producendo un embrione di città diffusa, devastando quel che rimaneva del paesaggio agrario circostante (a unico vantaggio dei proprietari dei terreni periurbani risparmiati dagli espropri). Oggi facciamo quotidianamente i conti con il disordine urbanistico prodotto da quella scelta imposta in nome dell'identità, disse il sindaco per preservare la città da una L'Aquila2, ma quest'eventualità si sarebbe potuta evitare semplicemente localizzando gl'insediamenti d'emergenza in prossimità della città, intorno alla periferia, non in una circonferenza di venti chilometri, separati da montagne e da un dislivello altimetrico di oltre 500 metri, nel pretesto vacuo di una malintesa idea di "città-territorio". Massimizzando la vicinanza alla città si sarebbero potute ricostruire quelle comunità pedonali che ora sono completamente estinte. Oggi quella che era la città delle piazze, simbolo del contatto, della prossimità, è la città delle rotonde, simbolo del vuoto, della distanza. Oggi abbiamo una periferia esplosa che divora le aree rurali intorno a un centro storico imbalsamato in nome di un'idea d'identità grettamente fraintesa come fissazione nei confronti del passato. Un'idea che non comprende che l'identità è un concetto dinamico, che una città è, in fondo, un linguaggio che può essere riscritto. Invece siamo fermi, impigliati negli ingombranti puntellamenti di un passato da cui non riusciamo ad emanciparci; incapaci di interpretare un futuro che sappia coniugare il senso del luogo con una visione di mutamento, come è successo nelle passate ricostruzioni. In fondo l'identità aquilana non è mai stata attaccamento al passato ma mescolanza tra epoche, stili, generi, ricostruzioni. Tenendo ferma la necessità di tutelare i veri monumenti, a ben vedere non c'è ragione – se non economica e a vantaggio di pochi – di rattoppare catapecchie in nome della storia. D'altra parte l'ultimo secolo di storia ci avrebbe dovuto insegnare a diffidare dei politici che ciarlano d'identità. Il punto è che non si onora la memoria delle vittime del terremoto con una ricostruzione irresponsabile. Il 6 aprile guardiamoci intorno, facciamoci un giro tra i puntellamenti milionari delle case pericolanti centro storico, facciamo un giro tra le 19 isole dell'arcipelago del progetto C.A.S.E., e chiediamoci come farà a venire fuori una città da questo guazzabuglio. Facciamocelo questo giro, e spero che se lo facciano i nostri amministratori, perché certi errori non si supereranno negandoli, ma solo riconoscendoli. Un margine di manovra c'è ancora, specialmente nel centro storico, dove, una volta sprecati tantissimi soldi per quell'eccesso di puntellamenti (che di certo hanno giovato alle finanze delle ditte che li hanno eseguiti), si può invertire la rotta, e considerare di iniziare a demolire gli edifici a basso valore storico-artistico-architettonico gravemente danneggiati, senza sprecare ancora ingenti cifre per ristrutturazioni azzardate che minacciano di risolversi in rattoppi pericolosi da un punto di vista della tenuta sismica. Un margine c'è anche in periferia dove si poterebbe smettere di riempire la campagna tra la città e i siti del progetto C.A.S.E. di capannoni e di altra immondizia urbanistica, e pensare a un processo di riqualificazione degli spazi rurali. Si tratta di iniziare ad essere sovversivi nei confronti di certe fissazioni. Sovversivi nel senso buono del termine.

Ultima modifica il Lunedì, 08 Aprile 2013 10:40

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