Lunedì, 08 Aprile 2013 02:07

Bilancio partecipativo: chi sta decidendo davvero come spendere 3 milioni?

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Un mese e mezzo di incontri, da metà marzo fino alla fine di aprile 2013, per determinare insieme ai cittadini come spendere una parte dei 3 milioni di euro che saranno messi in bilancio per piccole e grandi opere pubbliche. E’ il bilancio partecipativo, una iniziativa dell’ufficio per la partecipazione del Comune dell’Aquila.

Undici appuntamenti, compreso quello conclusivo del 26 aprile, divisi in due tornate, la prima di carattere informativo, l’altra consultiva.

“Saranno interessate tutte le aree del territorio comunale e i cittadini, oltre che ascoltare i programmi dell’amministrazione, potranno formulare proposte e confrontarsi con gli assessori così da definire un bilancio, nell’aspetto che riguarda i lavori pubblici, davvero condiviso con tutta la comunità”. Parole dell’assessore Pelini, in fase di presentazione di un progetto di sicuro interesse a cui, però, la città non ha partecipato come si immaginava. E di cui molto poco si è detto, anche se le cifre stanziate non sono affatto irrisorie. Venerdi 12 aprile, a San Giacomo, ci sarà un nuovo incontro con i cittadini.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo intervistato Daniela Ciaffi, ricercatrice nel campo della sociologia dell’ambiente e del territorio all’università di Palermo, che ha lavorato ai bilanci partecipativi di Ivrea e Cumiana e, all’argomento, ha dedicato un libro molto interessante, scritto a quattro mani con Alfredo Mela: “Urbanistica partecipata”, Carocci editore.

Ci ha spiegato qualcosa di più di questa innovativa formula di partecipazione della comunità alla vita politica, economica e sociale dell'amministrazione, e raccontato perché il bilancio partecipativo dell’Aquila non la convince affatto.

Cosa si intende per bilancio partecipativo?

Parlare di bilancio partecipativo significa una cosa ben precisa: che i cittadini amministrano direttamente una quota del portafoglio pubblico che viene normalmente gestito dai rappresentanti politici. Ciò può avvenire in diversi modi, ma dire “bilancio-partecipativo” è come dire, ad esempio, “partita-di-calcio”: è vero che esistono tanti modi per giocare al pallone, ma quando si sente parlare di una partita il pensiero va subito a una sfida di 11 giocatori contro 11, su un campo a forma di rettangolo, con 2 porte, dove è vietato fare falli e vince chi fa più gol nei 90 minuti di tempo. Visto che le partite di calcio si giocano da secoli mentre i bilanci partecipativi si fanno solo da un paio di decenni, è ovvio che il significato non sia altrettanto noto. Ma anche quando si parla di bilancio partecipativo si fa riferimento ad una partita che ha le sue regole. La prima, tanto geniale quanto dirompente, è quella che ha fatto la fortuna del bilancio partecipativo prima in Brasile, poi in Europa e a seguire in diverse città grandi e piccole del mondo: la gestione di una quota del bilancio comunale viene appunto assegnata direttamente ai cittadini.

Perché è importante ascoltare la voce dei cittadini sul bilancio?

Perché chi è stato votato ha bisogno di intelligenza collettiva quotidiana, che non può esprimersi soltanto al momento del voto. I cittadini, il sindaco e la giunta, i funzionari degli uffici comunali: tutti non possono che uscire più ricchi da un percorso di argomentazione pubblica. Si inizia parlando di soldi ma si finisce con il rivedere insieme l’agenda politica della città e del territorio. Ai cittadini interessa ascoltare i responsabili politici e tecnici per capire come vengono gestiti in municipio i flussi di denaro in entrata e in uscita. A proposito dell'ascolto, la letteratura parla di una prima fase di lamentela fisiologica (dei cittadini verso gli amministratori, ma anche viceversa). Nella mia esperienza questa è seguita da una gran fatica per rompere le rispettive routine. Ma poi posso testimoniare di aver visto persone rigenerate: funzionari pubblici più orgogliosi di far conoscere agli abitanti il proprio lavoro, confortati a loro volta nel conoscere il volto umano della macchina burocratica. Il confronto a più voci sul bilancio è poi una strategia utile ad evitare di prendere “cantonate”: chi decide senza confrontarsi con una pluralità di persone e gruppi ha molte più chanche di sbagliare, semplicemente perché ha molti meno elementi per decidere.

Esempi virtuosi in Italia, ce ne sono?

Il bilancio partecipativo è una delle sfide più difficili in tema di partecipazione dei cittadini alle trasformazioni urbane. Gli amministratori che lo propongono sono coraggiosi: elettoralmente, nella maggior parte dei casi, è una scelta politica che raramente paga. Perciò la letteratura scientifica che studia l’argomento (un bel testo disponibile on-line è quello di Allegretti ed Herzberg) è concorde nel ritenere virtuosi gli esempi di quelle città che non solo sperimentano il bilancio partecipativo, ma si esercitano in questo stile di governo per più di cinque, dieci anni. Tra le esperienze più citate, proprio perché più lunghe nel tempo, ricorrono quelle di Pieve Emanuele a sud di Milano, di Grottammare nelle Marche e dell’XI Municipio di Roma. È d’altra parte difficile capire lo stato dell’arte in Italia: a giudicare dal web parrebbe che in Italia un numero enorme di amministrazioni si stiano cimentando col bilancio partecipativo. Ma a cercare notizie più dettagliate sulle esperienze spesso si rimane delusi: finiscono sotto questa etichetta consultazioni qualsiasi. Io ho lavorato a due bilanci partecipativi: a Ivrea e a Cumiana (Torino). Nel libro “Urbanistica partecipata” (scritto con Alfredo Mela ed edito da Carocci nel 2011) abbiamo cercato di raccontarli con l’obiettivo di metterne in evidenza i punti di forza ma anche di debolezza.

Su quali risorse decide, di solito, il bilancio partecipativo?

Uno dei capitoli di spesa che vengono messi più frequentemente a bilancio partecipativo è quello dell’urbanistica, dei lavori pubblici. È ovviamente una questione di visibilità politica, nel senso che uno spazio pubblico riqualificato attraverso un bilancio partecipativo si vede, più di un investimento, ad esempio, sulle politiche educative o della salute. I bilanci partecipativi ai quali ho lavorato io come consulente sono andati così: a Ivrea furono messi 100.000 euro sul capitolo lavori pubblici sul quartiere di San Giovanni (l’esperienza è raccontata in dettaglio nel primo capitolo di un testo curato da Luigi Bobbio) e, l’anno dopo, sul quartiere di San Lorenzo. In questo secondo caso i cittadini optarono per rimettere a posto dei giardini pubblici, mentre era abbastanza evidente che l’amministrazione avrebbe preferito un altro esito: finanziare un tratto di pista ciclabile tra il quartiere e il centro. È inutile nascondere che come politico, ma anche come consulente del processo partecipativo, ti fai mille domande, però la regola numero uno era stata rispettata: questo portafoglio di 100.000 euro lo avevano gestito gli abitanti. A Ivrea ho capito anche un’altra cosa fondamentale, e cioè che impostare un bilancio partecipativo mettendo risorse solo sull’urbanistica non aveva senso. Infatti durante il percorso con i cittadini emergono di sicuro temi immateriali, anche se all’ordine del giorno ci sono le trasformazioni fisiche della città. Così a Cumiana spinsi sindaco e assessori a tenere a bilancio partecipativo una quota per le politiche sociali, oltre che per i lavori pubblici. E andò meglio, nel senso che durante gli incontri molte idee non vennero subito censurate perché non rientravano nei compiti dell’ufficio tecnico comunale. Alla fine non solo si riqualificò una piazzetta ma si finanziarono anche corsi di musica e teatro.

Come dovrebbe funzionare, nella pratica?

Gli amministratori pubblici iniziano con lo stabilire che venga messa a bilancio partecipativo una certa somma di denaro, ad esempio, sulla voce “urbanistica” del bilancio comunale, ma non decidono anche quali opere di urbanistica finanziare. Sono i cittadini a deciderlo, attraverso un percorso di confronto tra le priorità che emergono durante una serie di incontri (anche virtuali). Generalmente il ciclo è annuale, perché da un lato l'ente pianifica le proprie spese di anno in anno e dall'altro lato i partecipanti valutano dopo un anno l'esito delle scelte. Il bilancio partecipativo viene organizzato su base territoriale, chiamando gli abitanti di una certa area ma anche chi vive quel pezzo di città senza abitarci: rispondono i cosiddetti “cittadini attivi” o i “portatori di interessi”, ma l'amministrazione pubblica si impegna a includere anche le voci tradizionalmente escluse (quelle di bambini, immigrati, disabili). Non mancano casi in cui, all’ateniese, i partecipanti possono anche essere estratti a sorte. Uno dei nodi più difficili da sciogliere, nella pratica, è quello di come si decide l’opera da finanziare. È lì che la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta si incontrano/scontrano. I comuni che si sono esercitati per anni col bilancio partecipativo hanno affinato le tecniche: ad esempio a Pieve Emanuele in Lombardia si sono inventati un voto pesato: tipo che i cittadini che avevano partecipato agli incontri avevano diritto a un voto che valeva 1 mentre quelli che indicavano la loro priorità solo collegandosi on-line avevano diritto a un voto che valeva 0,5.

Come giudica l'esperienza aquilana?

Per tornare al paragone tra bilancio partecipativo e partita di calcio, penso che a l’Aquila un gruppetto di ragazzi stia facendo due tiri al pallone in cortile con un portiere volante.

Quali sono le criticità che stanno emergendo nell'esperienza del capoluogo abruzzese?

Ci sono due fattori che sono davvero singolari: la fretta e la mole di denaro. Penso che a chiunque abbia avuto esperienza di bilanci partecipativi suoni stranissima la formula aquilana del decidere come spendere 3 milioni di euro in 3 mesi, peraltro attraverso question time virtuali e incontri lampo. Dopo quasi quattro anni di un governo molto muscolare in nome dell’emergenza era ora che le istituzioni locali virassero verso uno stile partecipativo. Ma se si decide di avviare un bilancio partecipativo per davvero: 1) si stabilisce una cifra ragionevole; 2) la si mette in un portafoglio che si affida ai cittadini, possibilmente spendibile non solo sul capitolo dei lavori pubblici; 3) li si accompagna in un percorso di almeno un anno; 4) si riducono al minimo le assemblee (che alcuni studiosi definiscono la meno democratica delle tecniche di consultazione dei cittadini) e si punta invece su tecniche più interattive e creative. Queste sono le regole basilari di una partita regolare, e non posso credere che l’amministrazione comunale e i suoi consulenti scientifici non le conoscessero. Sul sito web del comune ho visto indagini conoscitive fatte con cura seguite da appunti dei primi incontri che parlano da sé: le informazioni che vengono date dal sindaco e dagli assessori responsabili e le prime reazioni dei partecipanti raccolte sul territorio non sono che l’inizio. E invece leggo che siete già alla fine: il 26 aprile è fissato l’incontro conclusivo. Ricordo benissimo che ero a l’Aquila quando i giornali hanno annunciato il bilancio partecipativo, erano i primi giorni di febbraio. Chiudo io con una domanda: che bisogno c’era di chiamarlo bilancio partecipativo?

 

Aggiungiamo anche noi qualche domanda: chi sta decidendo, in tutta fretta, come spendere i 3 milioni di euro stanziati per le opere pubbliche? E' davvero così che si pratica la partecipazione?

 

Il video dell'incontro alla scuola elementare del Torrione, 19 marzo 2013.

Ultima modifica il Martedì, 09 Aprile 2013 00:27

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